di Simona Cappellini
4 vite, 3 stagioni, più di 2000 scene. Tratto da un romanzo del 1978, Requiem for a dream è un film- bomba sulla dipendenza e sulle inevitabili conseguenze, crudelizzate dalla perdita dei sogni e delle speranze, antifona già preannunciata dal titolo stesso.
Sarah Goldbfarb è una vedova che trascorre la propria esistenza di fronte alla tv, finché un giorno un invito a partecipare alla sua trasmissione preferita le cambierà la vita, ridefinendone il senso. Per entrare in un vecchio vestito Sarah decide di iniziare una dieta, arrivando a servirsi di anfetamine che la porteranno ad una seria dipendenza. Harry è il figlio tossicodipendente di Sarah, che consuma i giorni in droghe di ogni genere , assieme alla compagna Marion e all’amico Tyron. Coney Island è la cornice che racchiude le vicissitudini e i sogni (infranti) dei personaggi.
Una trama semplice e apparentemente contenuta che si dipana in tre stagioni: l’estate, apice e fulcro della vicenda; l’autunno, che rappresenta il momento di transizione e segna la discesa progressiva, e l’inverno, il degrado finale della vicenda e delle vite dei personaggi. Tre stagioni che simboleggiano la facilità di declino di ogni vita, la perdita del controllo, l’impotenza di fronte a un vortice che ha ormai vita propria. Manca volutamente la primavera, perché in questo tipo di storia non c’è rinascita.
Requiem for a dream è un film anti-narrativo e dotato di una forte estetica. C’è anzitutto il coraggio della scrittura, intenzionalmente volta a scioccare (fin troppo in alcune immagini, ma che esasperano le situazioni riuscendo a dilatare la percezione dello spettatore). C’è la sintesi, che restituisce in ogni frammento il tema centrale del film, la dipendenza senza speranza. Ma è un film che va oltre l’ennesima storia di dipendenza, argomento che sicuramente non ne rappresenta il senso più ampio. Il nucleo tematico è infatti dato dalla somma delle sensazioni e delle riflessioni a freddo che il film è in grado di produrre, come la perversione di alcuni programmi televisivi, la solitudine, il bisogno di approvazione e di essere amati– significativa la frase della madre “ora sono qualcuno Harry, e tutti mi ameranno” – un insieme di leit motiv che conduce alla fragilità umana, perno che chiude il cerchio delle quattro vite.
Ma al di là della tematica e degli sviluppi della storia, più o meno discutibili, è sicuramente la tecnica a costituire la vera potenza del film. Lo Split Screen aggiunge velocità al ritmo già frenetico della storia e sottolinea il procedere delle vite in parallelo, mentre il flusso dirompente delle immagini riesce ad alternarci dentro e fuori le menti dei personaggi, trasmettendoci le sensazioni dei loro trip acidi, delle loro astinenze, degli elettroshock. Ogni scena equivale a una pillola, proprio come una delle tante ingerite dalla mamma Sara Goldfarb. Aronofsky crea un disturbo e per enfatizzarlo lo rende visivo, sonoro e perfino fisico.
Rappresentativa la sequenza ad effetto dell’assunzione di droga. Un montaggio di immagini iniettate come una siringa direttamente nel tessuto percettivo dello spettatore.
Ellen Burstyn commuove e convince pienamente nella sua spietata performance di decadenza umana e ci porta direttamente nella propria instabile e distorta realtà.
Anche la musica costituisce un importante sostegno al film, e partendo da un’atmosfera sognante per diventare sempre più nervosa e ossessiva, contribuisce ad aumentare il disagio di chi guarda.
Nonostante i pregi il film resta un po’ troppo inchiodato alla propria architettura, caratteristica che ne costituisce una più agile fruibilità ma che ne limita le possibilità, come ad esempio quella di raccontare la distorsione delle realtà dei protagonisti (per lo più omessa) sconfinando nel surreale. Ma forse l’intento del regista è proprio quello di non dare tregua, di metterci con le spalle al muro e farci sentire impotenti e fragili, sensazioni che in qualche modo, restano anche dopo il film.
Requiem for a dream
di Darren Aronofsky
con Ellen Burstyn, Christopher McDonald, Jennifer Connelly, Louise Lasser, Keith David.
Fotografia: Matthew Libatique
Montaggio: Jay Rabinowitz
Musica: Clint Mansell
USA 20oo
Durata: 101 min.