Nella polemica tutta veneziana con Marco Bellocchio il regista Michael Mann ha bollato il cinema italiano di provincialismo. Una pecca questa che impedirebbe ai nostri film di varcare i confini nazionali e sfondare ai botteghini. Se le cose stessero davvero come la pensa il regista statunitense – diventato famoso nel mondo per la fortunata serie televisiva di “Miami Vice” e film che possono piacere ma anche molto non piacere – dovremmo aggiungere che il nostro cinema (quello meno corrivo con la spettacolo) è provinciale già dentro i confini nazionali per gli ostacoli che gli si parano davanti nella circuitazione.
Per fortuna la realtà è un ‘altra, ed è diversa da quella che vede Michael Mann, anche perché la qualità di un film non si pesa solo sulla bilancia del box-office. In Italia da tempo si girano meno film rispetto a venti-trent’anni fa (ma è alzata la produzione coi formati brevi), e, tuttavia, riusciamo a produrre ancora opere apprezzabili, ovvero, per dirla tutta e pensando ad un cinema a trecentosessanta gradi, da noi si realizzano lungometraggi e cortometraggi di buona fattura e documentari straordinari (ma chi li vede?).
Se poi un lungo corollario di queste opere rimane sconosciuto non è certo per colpa degli autori, ma perché da un versante manca un sistema distributivo di tutela e dall’altro fa la sua parte il gusto del pubblico che andato sempre più immiserendosi e banalizzandosi. Non voglio mettermi a fare paragoni tra “Che bella giornata” di Checco Zalone e “Venti sigarette” di Aureliano Amadei, tra i vantaggi (già solo promozionali) che ha avuto l’opera del comico pugliese e quelli mancati al coraggioso giovane regista romano che ha portato sullo schermo il racconto della tragedia di Nassirya (vissuta in prima persona).
Mma per ritornare più da vicino al pensiero di Mann sul provincialismo nostrano, non si può che condividere quello che ha scritto Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera che senza proiezioni d’ impegno non ci sarebbe una cinematografia spettacolare, “senza Bellocchio, come senza Vigo e Godard, senza Herzog o Kluge, senza Kramer o Cassavetes il cinema non sarebbe diventato quello che è. E’ forse nemmeno Mann – scrive Mereghetti – avrebbe fatto i film che l’hanno reso celebre”.