Durante la 48° Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, che quest’anno dedicava una retrospettiva al documentario italiano degli ultimi anni, ho incontrato Gianfranco Pannone che oltre a dirigere un workshop sulla produzione di un documentario, presentava il suo nuovo documentario Scorie in libertà.
Il regista, nato a Napoli nel 1963 ma vissuto a Latina per molti anni-territorio cui sono dedicati molti suoi lavori -, ha all’attivo diversi documentari come la trilogia prodotta tra il 1990 e il 1998 Piccola America , Lettere dall’America e L’America a Roma o Latina/Littoria che nel 2001 ha vinto al Torino Film Festival il premio come miglior documentario .
Nel 2004 ha girato un film di fiction Io che amo solo te. Tra i lavori più recenti Il sol dell’avvenire (2008), sull’esperienza di una comune emiliana dalla quale alcuni passarono poi al brigatismo rosso e il documentario dedicato alla storia italiana attraverso i materiali dell’archivio Luce Ma che storia…(2010). E’ anche autore di saggi sul documentario tra i quali L’officina del reale. Fare un documentario: dalla progettazione al film (2010) scritto insieme a Mario Balsamo e Docdoc. Dieci anni di cinema e altre storie (2012) che raccoglie i suoi interventi critici su ildocumentario.it.
All’interno della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro 2012 hai condotto un workshop sul documentario, quale è stato lo stimolo maggiore che hai voluto fornire ai tuoi allievi?
Pannone: Pensare ad un workshop adesso può destare anche un po’ di dubbi, cioè invogliare altre persone a fare cinema documentario in un momento di difficoltà economiche che coinvolgono anche la produzione documentaristica può far dire “oh Dio!” Però i workshop hanno qualcosa in più rispetto ai corsi perché si rivolgono a persone che hanno già cominciato ed hanno magari bisogno di alcuni consigli, di trovare qualche conferma e di confrontarsi.
A questo laboratorio, che tra il serio e il faceto ho voluto titolare: Come fare un documentario e sopravvivere felici, hanno partecipato persone di varia provenienza ed età: tra i venti e i settanta anni; c’erano filmmaker, giornalisti, fotografi, studenti, neolaureati… Tipologie diverse che hanno dato un valore aggiunto al workshop. Con loro non ho parlato dei 101 modi per fare un documentario, dei tanti approcci possibili: ho parlato del mio modo di avvicinarmi alla realtà.
Il percorso lo abbiamo fatto con un cortometraggio di 10 minuti. E’ stato molto faticoso realizzarlo perché dovevo rispondere alle domande degli studenti e nello stesso tempo girare un corto in poco tempo. Girare e montare in pochi giorni non è stato facile. Ma credo che sia servito molto ai partecipanti perché hanno potuto vedere, ad esempio, come si affronta un montaggio, ovvero lo scarto che c’è tra quello che vorresti fare e quello che in realtà hai. Oppure le nuove soluzioni che trovi se hai saputo creare un filo rosso, e quindi lo scheletro che si compone di elementi che già ci sono ma anche di cose nuove; le sorprese che incontri al montaggio, qualcosa su cui contavi di meno che diventa importante e viceversa qualcosa che reputavi importante che cade. E’ un lavorare nel dubbio. Un’assoluta mancanza di certezze che hanno un certo tipo di documentari che hanno un taglio più sociale, antropologico, d’autore. Certo poi c’è Michael Moore che ha le idee molto chiare, ma credo che anche lui faccia un bel lavoro di selezione al montaggio.
Forse a volte Moore lavora un po’ troppo ingabbiato in una tesi.
Dal mio punto di vista sì; in questi corsi infatti cerco sempre di trasmettere un modo più laico di guardare la realtà, che è più difficile perché devi fare i conti con la complessità e l’ambiguità del reale. Le certezze in senso assoluto non mi appassionano molto. Quando tu vai a tesi, in maniera verticale, con un documentario rischi sempre di perderti una parte della bellezza della realtà, quello che la realtà ti può regalare. Perché la tua attenzione, la tua delicatezza, la tua capacità di metterti nei panni dell’altro e di rinunciare un po’ al tuo io, significa anche fare in modo che la realtà ti indichi qualcosa in più.
Da quali stimoli nasce il tuo documentario Scorie in libertà oltre a quello di tornare in un territorio che conosci bene e hai più volte raccontato nei tuoi documentari precedenti?
Io nato a Napoli, sono cresciuto a Latina. Una stana terra, perché era una palude poi bonificata da Mussolini dove nacquero nuove città. Una terra di frontiera come la chiamai nel primo film che feci nel 1991, una Piccola America. Poi vi ho ambientato un secondo film che si chiama Latina/Littoria, dove racconto il passaggio dalla destra fascista alla destra berlusconiana attraverso la storia di un sindaco fascista, e utilizzando una sorta di Virgilio, quell’Antonio Pennacchi che poi è diventato lo scrittore che oggi tutti conosciamo. All’epoca era già conosciuto, ma non come oggi.
Infine nel 2009, ho avuto l’idea di girare un film sul nucleare perché a Latina entrò a regime dal 1963 la più grande centrale nucleare d’Europa ed io negli anni ottanta mi trovai nei comitati antinuclearisti.
Tre anni fa si stava consumando il dibattito sulla scelta di Berlusconi di fare ritorno al nucleare con il patto con la Francia di Sarkozy. Allora mi sono detto che era ora di fare una riflessione sul nucleare. Perché quella del nucleare italiano è una storia estremamente schizofrenica fatta di prendere-lasciare, di innamoramenti e abbandoni. Anche i referendum di uscita dall’atomo sono stati molto emotivi; è una storia un po’ pazza. C’è dentro anche la dipendenza da energia; c’è la storia di Mattei che inaugurò la centrale di Borgo Sabotino che precedette le altre quattro centrali italiane.
Mi sono trovato in questa situazione di raccontare il presente facendo un viaggio al passato. Ho cercato di indagare su tre strati di questo territorio: da un lato il dopoguerra che fu interessante, perché essendo l’agro pontino zona di guerra le grandi multinazionali americane vi misero le loro fabbriche e arrivò la Cassa del Mezzogiorno.
Le fabbriche portarono nel territorio che aveva vissuto l’illusione del fascismo, l’illusione del boom. Negli anni ottanta l’industria entrò in crisi, la centrale venne chiusa prima di Chernobyl. Poi l’incidente alla centrale sovietica e il successivo referendum decretarono la fine dell’avventura nucleare italiana.
Dei giorni nostri il tentativo che c’è stato in Italia di tornare al nucleare.
Ma il film lo dovetti abbandonare perché improvvisamente, con l’accordo Berlusconi- Sarkozy, sia i produttori francesi che quelli italiani erano diventati non dico tutti nuclearisti ma sicuramente molto prudenti. Poi è arrivata Fukushima. Così mi sono detto che questo film l’avrei chiuso con la mia società e l’aiuto di mia moglie, utilizzando i proventi che mi venivano dalla vendita dei miei documentari precedenti a Rai Storia.
Stavolta ho provato a fare il produttore di me stesso. Mi reputo un privilegiato perché sono sempre riuscito a lavorare su dei budget abbastanza consistenti.
Sono molto fiero di aver chiuso questo lavoro, perché secondo me era assurdo che non ci fosse una riflessione sul nucleare in Italia. Non sta a me dire se ci sono riuscito o meno, ma sicuramente parlare del nucleare su quel territorio mi permette di fare una riflessione, non solo sull’atomo ma su una storia schizofrenica, tipicamente italiana, che è molto legata alla guerra fredda. Perché nel film emerge il sospetto che il nucleare sia stato fermato in Italia anche perché gli USA avevano paura che gli italiani potessero vendere il plutonio agli stati canaglia.
Là c’era anche una piccola centrale nucleare, quella del Cirene, che non è mai stata completata. Il primo vero reattore sperimentale italiano fu bloccato negli anni ottanta, era al plutonio e gli americani, sono state scoperte delle carte, temevano che questa centrale potesse essere un’arma pericolosa nelle mani degli italiani; noi abbiamo perso la guerra, non lo dimentichiamo mai.
A tutto questo però si è aggiunto il fatto, molto all’italiana, che il nucleare ha permesso che si realizzasse una sorta di far west intorno a quell’area. Con la militarizzazione a cui doveva essere sottoposto il territorio per la centrale nucleare, in cambio di un silenzio più da sudditi che da cittadini, le autorità locali hanno permesso che si costruissero case abusive, che si aprisse un poligono di tiro militare e altre servitù. Quindi quella zona è un far west pieno di scorie, che non sono solo quelle del nucleare o delle industrie, sono anche scorie morali.
Nel film racconto anche la storia di mio zio, che è venuto a fare l’operaio da Napoli e che negli anni sessanta si è preso un terreno con due soldi, guarda caso vicino alla centrale nucleare e lì ha costruito una casetta abusiva. Tutto questo gli è stato permesso, ma è solo colpa della politica o è colpa del cittadino che ha avuto il suo piccolo tornaconto in cambio di far finta di nulla. Lì ad esempio c’è un’incidenza di tumori più alta della media italiana, lì il cittadino ha preferito essere un suddito. Scorie in libertà è un pretesto per raccontare un pezzo di Italia molto rappresentativo nella situazione storica novecentesca attraverso lo scempio che è stato fatto del territorio.
Nei tuoi scritti parli spesso dell’importanza di dare un’unità di stile ai tuoi lavori, come quando hai girato le interviste ai contadini di Piccola America utilizzando sempre sfondi neri, qui che tipo di scelte stilistiche ti eri prefissato?
Ho fatto un film un po’ più frontale, è un film diario, ho investito la mia persona. Sono io che racconto e incontro le persone, sia quelle che conoscevo già sia quelle che conosco sul momento. Mi sono preso questa responsabilità, volevo essere io testimone, in quanto ho vissuto quell’esperienza degli anni ottanta in prima persona e quindi l’ho impostato in maniera diversa rispetto a Piccola America e Latina/ Littoria, film dove c’è uno sguardo relativamente più oggettivo.
Se dovessi suggerire a dei giovani spettatori qualche documentario per entrare un po’ in contatto con questo settore del cinema, quali titoli diresti?
Suggerirei di vedere non solo Michael Moore ma di conoscere anche un altro grande contemporaneo americano che è Errol Morris.The fog of war, che è uscito anche in dvd, racconta l’America attraverso la testimonianza di McNamara, che era segretario alla difesa sotto la presidenza Johnson.
Poi suggerirei i film della tradizione francese, come quelli di Nicolas Philibert non solo Essere avere, ma anche Il paese dei sordi. Come può essere interessante l’esperienza di vedere un film di Wiseman, l’esperienza del cinema diretto degli anni sessanta o i film dei fratelli Maysles. Ma sono film difficili da trovare in Italia.
In Italia poi ci sono tanti autori interessanti, per citarne solo alcuni: Alessandro Rossetto di cui consiglierei di vedere Bibbione By By one, i film di Giovanni Piperno. La generazione dei quaranta cinquantenni. Dei più giovani farei vedere Pietro Marcello, Il passaggio della linea e La Bocca del lupo. C’è Stefano Savona, che ha fatto Primavera in Kurdistan. Qui ha presentato Piazza Tahir. Ci sono ormai dei documentaristi italiani di livello europeo.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Sto lavorando su un progetto che si chiamerà o Vesuvio o Sul vulcano ed è un film in cui racconto il Vesuvio. Né da un punto di vista storico né scientifico, in realtà racconto il Vesuvio come luogo simbolo di una certa mediterraneità. Luogo che ha modellato anche quella città storta che è la mia Napoli. Nel senso che la presenza di un vulcano crea una sorta di precarietà del vivere che è tipicamente napoletana, perché si ha la consapevolezza che dopotutto la natura è più forte dell’uomo. Per cui in realtà attraverso il Vesuvio faccio una serie di riflessioni sul Novecento, sul prometeismo e sull’opportunità di fare un passo indietro e di tornare a considerare anche un dialogo diverso con la natura, una realazione che non sia solo di sfida. E’ un film di suggestioni letterarie, cinematografiche, ci sono una serie di testimoni. E’ un progetto molto ambizioso che spero di riuscire a realizzare l’anno prossimo.
Anche a questo film darai un taglio diaristico?
No, avevo pensato anche a quello. C’è un mio prologo ma poi il film passa attraverso una figura guida che sto individuando in un intellettuale, uno scrittore napoletano. Non dico chi perché non ho ancora la risposta. Dovrebbe essere una produzione europea italo-francese, speriamo bene. E’ sempre più faticoso montare un film documentario, una cosa terribile.
(Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, 1° luglio 2012)