Agosto 1992. Ventiduesimo Festival del Cinema dei Ragazzi di Giffoni Valle Piana. Nonostante la calura viene giù giove pluvio e tutti gli appuntamenti in programma vengono spostati dagli spazi all’aperto al cinema Valle ( nel piccolo centro salernitano non era sorta ancora la cittadella del cinema).
E’ qui che mi avvicino timidamente al regista Theo Angelopoulos e gli chiedo se può rilasciarmi un’intervista. Tra un perfetto francese e un italiano zoppicante mi fa capire che si può. E seduta stante ci appartiamo in un angolo del bar del Valle per iniziare la conversazione.
Allora scrivevo di cinema già da qualche anno, e di registi, attori, cinematografari ne avevo conosciuti pure abbastanza, ma con Angelopoulos fu una delle prime volte che avvertii il contagio diretto con l’anima, l’occhio di un cinema politicizzato (ed antagonista) dei grandi circuiti che mette lo spettatore in rapporto critico con quello che vede. Senza andare a rileggermi l’intervista, di poche sue parole ho ancora un ricordo lucidissimo.
Con un mezzo sorriso beffardo mi confida Angelopoulos che per lui la stragrande maggioranza degli americani made in Usa sono degli imbecilli nel senso più pieno della parola e il cinema degli Studios viene prodotto per un pubblico che passivamente e sistematicamente deve immolarsi all’altare del sollazzo.
In un altro frammento dell’intervista spende belle parole per il poeta e sceneggiatore romagnolo Tonino Guerra con cui ha girato, forse, i film più belli della sua carriera. “Un fratello per me è Tonino, un vero poeta solo con lui potevo fare dei film in cui la storia si cementa così delicatamente con l’epica e la lirica”…
Theo Angelopoulos, il più grande regista greco, è morto a 76 anni lo scorso 24 gennaio investito da una moto in una località dell’Attica, ad ovest del Pireo, mentre stava ultimando le riprese del suo ultimo lungometraggio con protagonista Toni Servillo.
Da “Ricostruzione di un delitto” del 1970 a “La polvere del tempo” di tre anni fa, il regista ateniese ci ha lasciato in eredità non molti film (appena quattordici quelli completati), ma uno più bello e intenso dell’altro, eppure se si consultano i saggi (e sono diversi) sui cento film più belli della storia del cinema di tutti i tempi non si trova un solo volume che cita un suo lavoro.
Vi si può trovare in classifica “Cabaret” di Bob Fosse o “Un tranquillo week-end di paura” di John Boorman ma non si segnala La recita (1974), un capolavoro in assoluto di quattro ore (con degli straniamenti di natura brechtiana), oppure l’ esistenziale e metaforico Alessandro il grande (1980) o Lo sguardo di Ulisse (1991), affresco di altissima tensione stilistica che vide, durante le prime riprese, la morte del protagonista Gian Maria Volonté sostituito poi da Harvey Keitel.
Hanno scritto di Angelopoulos: regista isolato, intransigente, rigorosamente artista, “lo sguardo del cinema europeo”. E ciò è tutto vero, ma va ricordato perché, insieme all’ungherese Miklos Jancsò, è stato il maestro, il grande manipolatore (se così si può definire) del “plan-séquence” (piano sequenza), cioè della tecnica del montaggio interno durante le riprese che sfrutta i movimenti di macchina giovandosi della profondità di campo e della molteplicità di piani entro una singola inquadratura…
Ritornando alla conversazione al Giffoni Film Festival salutandoci mi domanda su quale quotidiano sarebbe uscita l’intervista. Ribatto non su un quotidiano, ma sul numero prossimo dello storico settimanale anarchico Umanità Nova (all’epoca redazione collegiale Spezzano Albanese). Chioserà il regista greco: “Ho sempre avuto in grande considerazione gli anarchici e la loro storia, spesso dolorosa e mal compresa”.