Quando sentii suonare il telefono, andai a rispondere veloce come sempre per non far scattare la segreteria.
“Pronto”. “Sono Mario Monicelli…”
“Oh sì! E’ già arrivato l’articolo…” “La ringrazio. Ho letto le sue poesie… che delicatezza… mi sono piaciute, soprattutto la grande delicatezza…”
La sua voce vibrava di una emozione sincera, delicata.
Anche io, emozionata e sorpresa, non riuscivo a dire molto.
Raccontai che il libro sarebbe uscito in Messico, bilingue, che ero stata fortunata.
Altre cose dicemmo che non ricordo. Quello che ricordo bene è che, non riuscendo a gestire tutta l’emozione che c’era, la telefonata fu piuttosto breve. Molte cose che avrei voluto dire o chiedere mi rimasero in gola.
Monicelli comincia così il discorso con cui ringrazia la città di Parigi che gli sta rendendo omaggio:
“Sono così commosso che la distanza tra la mente e le labbra è diventata immensa”. Nel marzo del 2008, a 93 anni, deve presentare un libro e tenere una lezione di cinema.
Mario Monicelli l’avevo conosciuto nel 2002, in un modo singolare. Era la sera dell’inaugurazione di EuropaCinema. Venivo da una delle mie più belle estati a Viareggio. Ottimo clima, un bagno memorabile verso la fine di agosto durato più o meno un’ora e mezzo: si sentiva persino l’odore del mare – cosa rara in Versilia -,qualche pesciolino, l’acqua viva, frizzante, un po’ mossa, con una temperatura ideale; tentavo l’uscita ma, dopo qualche passo sul bagnasciuga, tornavo dentro, sentendomi quasi pesce e felice.
Una felicità di esserci che esprimevo in quel periodo fisicamente, energeticamente.
Fu in questo stato di grazia che entrai nel cinema Politeama la sera dell’inaugurazione. Fu nel corridoio di metà sala che incrociai Monicelli che andava a prendere posto, accompagnato da altri membri della giuria.
Mi colpirono il corpo magro, il modo di camminare veloce e sicuro. Ci vedemmo senza insistenza. Discretamente.
Per caso capitai con il mio compagno, che mi aveva raggiunta, nella fila successiva a quella dove aveva preso posto il regista. Quando la serata si concluse, rimanemmo seduti ad osservare chi se ne andava, chi si attardava. Commentavamo, scherzavamo.
Monicelli, che si era alzato e diretto verso il palco, di ritorno da solo si fermò più o meno davanti a noi, spostato sulla destra, e mi guardava in modo intenso, luminoso. Non è facile descrivere quel momento nella sua concentrata bellezza, il mio stupore per quella intensità e chiarezza.
Era fermo lì, vivo, vivissimo, gli occhi profondi come in attesa di una risposta. Che non riuscii a dare in modo altrettanto esplicito. Certo lo guardavo, ma ero un po’ destabilizzata, un po’ aggrappata alla vicinanza del mio compagno. Sentivo che avrei dovuto alzarmi, andarlo a salutare, presentarmi. Fare qualcosa. Ma, come suole accadermi, rimasi al mio posto, incollata alla seggiola e al mio compagno.
E, come suole accadermi, mi pentii della mia lentezza di reazione, della mia abitudine ad essere molto attiva interiormente, ma poco operosa. Pensai di “rimediare” chiedendogli un’intervista come collaboratrice del Giornale di Brescia quale ero.
Se non si coglie il momento, poi tocca risalire la china del non fatto a tempo debito.Lo aspettai al termine di una proiezione e riuscii, dopo aver fatto un po’ di coda, a fissare un’intervista per uno dei giorni successivi a quello della chiusura del festival.
Appuntamento nell’albergo dove alloggiava, di mattina. Quella mattina, già pronta per andare, mi venne l’idea di fare le cose a modino: meglio telefonare prima per essere sicura di trovarlo, pensai. Così feci, frenando a stento la mia voglia di scappare fuori di casa e andare verso la Passeggiata, verso il mare.
Monicelli, come me, era innamorato di Viareggio. Ad un giornalista sentii che diceva: “A Viareggio si è leggeri, si va”.
“Buongiorno… Ho un appuntamento con Mario Monicelli…” “Monicelli è già partito. Non è più qui”. “Ma è proprio sicura? Mi aveva dato un appuntamento per oggi…potrebbe controllare se…” “No, guardi, è proprio sicuro. E’ già partito”.
Malissimo ci rimasi. Incredula. Non mi venne però l’idea di andare comunque, di verificare di persona. Troppa la delusione con le domande pronte che mi piangevano nella borsa: non erano più l’occasione per sentire il Maestro raccontare con la voce calma, in modo asciutto, preciso, della sua vita e del mondo.
Alla fine del 2004 lasciai la casa che avevo avuto a Viareggio per circa tre anni e che mi aveva permesso di vivere per la maggior parte dell’anno nel modo che preferisco, tra mare, cielo e gente più rilassata rispetto agli abitanti della “operosa e rustica” Lombardia.
Con mio grande stupore, ascoltando radio 3 una mattina, mi era capitato di sentire che una ricerca sulle zone più erogene d’Italia collocava al terzo posto la pineta di Viareggio.Purtroppo per motivi vari dovetti tornare a Brescia, carica di orizzonte marino e di respiro. Quando però scoprii che EuropaCinema si sarebbe tenuto nella primavera del 2005 e che sarebbe stato dedicato a Mario Monicelli, ai suoi novanta anni, feci le valigie per esserci e portare a compimento quello che avevo iniziato e non concluso.
La fortuna mi aiutò, la mia agilità e determinazione fecero il resto.
Dopo qualche giorno dall’inizio del festival ero entrata nella sala semi-buia del cinema Principe di Piemonte e, mentre percorrevo il corridoio centrale, vidi che Monicelli era seduto nella fila che dava sul corridoio laterale a destra.
Mi sedetti dove trovai posto, qualche fila più avanti, pronta ad avvicinarlo quando le luci si fossero riaccese. Ancora la fortuna mi aiutò perché, quando le luci si accesero, accanto a lui c’era un posto vuoto sul quale mi sedetti veloce, temendo che qualcuno mi precedesse.
“Lei non si ricorderà, ma io le avevo già chiesto un’intervista… dovevo venire in albergo, ma lei non c’era il giorno dell’appuntamento…” “E chi l’ha detto” risponde, guardandomi dritto negli occhi e come a dire è lei che non è venuta. “Ho telefonato in albergo e mi hanno detto che era partito…”
“L’hanno detto loro…” Non mollava. Rinnovai allora la richiesta di un’intervista. “Sono giorni molto pieni, ma si può fare”. “Intanto mi può dare un recapito telefonico, così se non riusciamo ora…” “Certo”. Scrissi il numero di telefono.
Altre persone stavano aspettando di avvicinarlo, lo salutai e me ne andai non del tutto soddisfatta. Non avevo un appuntamento.
Un giorno o due dopo, attrezzata con registratore e domande, tornai al cinema Principe di Piemonte, nella speranza di incontrarlo. Non essendoci riuscita, mi informai su dove potesse essere. Mi dissero che il gruppo dei “famosi” era andato a mangiare sul mare, al ristorante di un bagno vicino al cinema. Decisi di non rimandare, di andare a vedere.
Stavano mangiando divisi in piccoli gruppi. Monicelli, di spalle al mare, aveva in testa un piccolo copricapo chiaro. Aspettai con pazienza che finissero.
A tappe, muovendomi tra i tavoli del bar-ristorante, mi avvicinai; l’ultima tappa la feci parlando con l’attrice Ida Di Benedetto, che sedeva al tavolo accanto a quello di Monicelli.
Ero arrivata, salutai e: “Posso sedermi accanto a lei?” “Certo, certo”. “Che mi dice dell’intervista?” “Possiamo farla anche ora, se vuole” e indicando il regista Citto Maselli, seduto di fronte, aggiunse: “Se vuole allargare…” “Mi dispiace, ma ho pensato solo a lei…”.
Maselli salutò gentile e sorridendo. Rimanemmo soli; gli altri erano già andati via prima che mi avvicinassi. Preparai il registratore, tirai fuori il quaderno e sotto il sole che ci prendeva alle spalle, cominciammo la nostra amabile, interessante conversazione.
Monicelli non perdeva neanche per un attimo l’attenzione, la concentrazione. Una grande energia mi arrivava da lui. La sensazione di una presenza preziosa, benevola. Alla fine dell’intervista gli chiesi se gli piacesse la poesia. “Molto” mi disse, guardandomi con calda intensità e convinzione. “Allora, insieme all’intervista, le spedisco un mio libro di poesie: Affamati di senso”. “Lo leggo volentieri. Me lo mandi. Grazie per l’intervista”. Si alzò diritto come un fuso e se ne andò via spedito.
Con sollecitudine avevo inviato l’articolo, il libro di poesie, i miei numeri di telefono. Non mi aspettavo però una telefonata, perché mi era capitato di sentire – durante un incontro a Viareggio per il suo compleanno – che non telefonava facilmente. Sembrava dalle battute che alcuni avevano fatto che non telefonasse praticamente mai.
Ed invece eccolo al telefono dopo non molti giorni dal mio invio. E la sua gentilezza, la sua delicatezza.Poiché ero stata piuttosto imbranata, scrissi una lettera di ringraziamento per la telefonata.Anche gli parlavo del mio amore per Viareggio, sapendo del suo. Io vi ero rinata dopo tanti anni di pianura padana.
La seconda telefonata di Monicelli mi arrivò sul cellulare, probabilmente perché il fisso era occupato. Aveva poca voce e rauca. Mi spiegò che era stata l’aria condizionata a ridurlo così.Gli promisi una visita a Roma, non appena mi fosse stato possibile.
A volte faccio fatica ad accettare questa mia contraddizione: sono vitale, capace di intraprendenza, ho una grande facilità a parlare con le persone, dovunque, ma una parte di me mi boicotta, mi impedisce di fluire sull’onda del già fatto e a me favorevole.
Si può chiamarla pigrizia, meglio forse tendenza rinunciataria, indotta nel mio caso dall’educazione ricevuta in famiglia.
Non sono mai andata a Roma a trovarlo.
Devo anche dire, per amore della verità, che, qualche mese dopo la seconda telefonata, sono stata travolta per quasi tre anni dai problemi di un carissimo fratello che a Monicelli sarebbe molto piaciuto: disegnatore di fumetti, pittore, musicista, molto simpatico e arguto.
Non c’è più questo meraviglioso fratello, che a soli 52 anni se ne è andato via da questo mondoche può essere molto ingiusto e aggressivo sotto mentite spoglie.
A voi, Mario, Lucio, un affetto immenso.