di Gianni Quilici
Impresa ardua riuscire a rappresentare in meno di due ore la profondità o lo sguardo simbolico che Yehoshua riesce a donare al suo “responsabile delle risorse umane” e agli altri protagonisti essenziali, che a lui si rapportano.
Perché la prosa di Yehoshua ha la sua forza essenziale in una scrittura molto analitica, con cui riesce, attraverso la quotidianità anche minuta, a trovare il cuore e il pensiero dei suoi personaggi.
Eran Riklis ( regista di La sposa siriana e Il giardino di limoni) forse vuole dire troppo, rimanendo sostanzialmente legato alla storia, ma lo può fare solo semplificando molto.
Avrebbe dovuto o fare un film con più tempo o operare dei salti, lasciando indefiniti certi passaggi.
L’inizio è efficace: Riklis dà al protagonista malessere e sconcerto tra luci e ombre, buio e pioggia, sullo sfondo di una Gerusalemme solitaria e sconvolta da attentati suicidi.
Ma nel prosieguo non si coglie, o si coglie appena, ciò che costituisce la grandezza del romanzo: la trasformazione del “responsabile delle risorse umane”, che, radicalizzando la sua “missione”, diventa, in qualche misura, una figura portatrice di un messaggio universale; a favore, invece nella pellicola, di un’andatura picaresca sullo stile del road movie, con sequenze di divertito, dinamico alleggerimento, che smorzano la drammaticità del percorso interiore del protagonista.
Così come il regista israeliano non riesce a cogliere in pieno l’altra grandezza del libro: la carica simbolica, che assumono la bellezza e la misteriosità della donna morta, che diventa alla fine la metafora di chi non ha più patria, essendo l’intero pianeta la sua patria.
Non che non ci sia questo proposito, ma è fuggevole, non ha la forza di farsi sentire, di avere risonanza.
Alcune figure che ruotano intorno al protagonista lasciano insoddisfatti: il figlio e l’ex marito della donna, troppo drammaticamente manieristici; e soprattutto il giornalista accusatore, figura significativa perché, sia pure ambiguamente, si contrappone al “responsabile…”, reso con uno sguardo grottesco, che tende al caricaturale.
Però il film merita di essere visto.
Primo: perché il “responsabile delle risorse umane” trasmette una gamma di articolazioni complesse e l’interprete, Mark Ivanir, gli dà il volto e l’andatura giusta: duro e sfuggente, doloroso e determinato.
Secondo: per dei momenti poetici, emozionanti: l’incontro del figlio con la nonna, la madre della donna uccisa, quando ritorna al povero paese contadino con la gente che gli si fa appresso; e il colloquio della stessa donna (un volto ieratico e fortemente simbolico di dolore e alterità) con il protagonista.
L’inizio: ennesimo attentato a Gerusalemme. Tra i cadaveri una donna (bellissima) senza documenti. I suoi resti giacciono per oltre una settimana nell’obitorio. Si sa solo che si chiamava Yulia e lavorava in una fabbrica. Il principale quotidiano della città si lancia in un linciaggio mediatico nei confronti dell’azienda per la quale la donna lavorava, che non si è interessata dell’assenza di lei. Ecco che il responsabile delle risorse umane deve rimediare al danno….
Il responsabile delle risorse umane (The Human Resources Manager)
Regia: Eran Riklis
Sceneggiatura: Noah Stollman
Fotografia: Rainer Klausmann
Interpreti: Mark Ivanir, Guri Alfi, Noah Silver, Rovina Cambos, Julian Negulesco, Bogdan Stanoevitch, Gila Almagor, Reymond Amsalem, Yigal Sade, Irina Petrescu, Papil Panduru
Nazionalità: Israele – Germania – Francia – Romania, 2010
Durata: 103 minuti.