di Mimmo Mastrangelo
Può capitare che a rassegne internazionali prestigiose, come Rotterdam, Locarno, Montreal, i film di Paolo Benvenuti facciano il pienone di pubblico nelle sale (o nelle piazze), mentre, se di tanto in tanto, circolano nelle nostre sale, non vengono visti più da dieci spettatori.
Naturalmente non è tale raffronto a connotare il lavoro di un outsider del cinema italiano che si porta con sé, da oltre quarant’anni la lezione (della ricerca e del linguaggio didattico) di Roberto Rossellini con cui lavorò da assistente nel 1972 in “L’età di Cosimo Medici”.
Nato a Pisa nel 1946, fondatore nella sua città dello storico cineclub l’Arsenale, l’attività di Paolo Benvenuti si è divisa tra pittura (amore giovanile), teatro e cinema. Ma è dagli inizi degli anni novanta che la sua musa è rimasta solo e soltanto il cinema. Da quando si messo per la prima volta dietro la macchina da presa ad oggi ha girato in tutto una decina di corti e sette lungometraggi, quest’ultimi nonostante non abbiamo trovato da noi una generosa distribuzione, sono opere che tengo alto il prestigio del cinema italiano .
I titoli dei lungometraggi sono “Frammento di cronaca volgare” (1972) – cronaca dell’assedio di Pisa da parte dei fiorentini tra la fine del quattrocento e l’inizio del cinquecento – “Il bacio di Giuda” (1988) – costruito sull’idea che il tradimento dell’apostolo doveva essere indispensabile alla missione terrena del Cristo – “Confortorio” (1992) – dramma sulla conversione di due ladruncoli ebrei con una fotografia ispirata alla pittura fiamminga e caravaggesca – “Tiburzi” (1996) – opera che trova il suo splendore non tanto nella cattura e uccisione di un vecchio brigante quanto nel paesaggio maremmano – “Costanza da Libbiano” (2000) – storia di una contadina mandata scambiata in strega e mandata al rogo dalla Chiesa nella Toscana del cinquecento – “Segreti di stato” (2003) – docu-inchiesta che smonta la versione ufficiale sulla strage del primo maggio del 1947 a Portella della Ginestra – “Puccini e la fanciulla” (2008) – minuziosa ricostruzione in costume sul suicidio di una giovane cameriera accusata di essere amante del grande musicista Giacomo Puccini.
Pellicole queste in cui si possono rintracciare – come si evince dalle pagine della monografia “Le maschere della storia” (edizioni Il Castoro) a cura di Alberto Morsiani e Serena Agusto – storie di identità negate che vanno oltre le apparenze, oltre i loro contenuti, oltre varabili consolidate e tengono a contraddire in qualche modo il cinema stesso.
In uno dei brevi saggi del libro di Agusto e Morsiani, pubblicato in occasione della retrospettiva dedicata lo scorso ottobre al regista dall’Associazione Circuito Cinema di Modena, viene indicato proprio come nei film di Benvenuti “non basta vedere cosa c’è dentro, ma cosa c’è dietro”.
Infatti i lavori sopracitati sono legati da un doppio filo rosso, da un metodo di ricerca sistematico e rigoroso, “sono un ricercatore – afferma il regista toscano – che scoprendo punti i vista inediti lavoro affinché questi diventino patrimonio collettivo. Faccio dei film per far conoscere al pubblico le mie scoperte”. Scoperte che poi si delineano sullo schermo seguendo una netta indicazione estetica, a partire dalla cura delle singole inquadrature fino ad imporre il punto di vista della macchina da presa che è poi il pensiero filmico del regista stesso.
Fatta propria la grande lezione di Rossellini, Paolo Benvenuti confessa a Serena Agusto: “ Un regista ha due compiti fondamentali da svolgere: dirigere gli attori e scegliere il punto i vista della macchina da presa. Nessun regista italiano oggi fa queste due cose insieme”.
“Le maschere della storia. Il cinema di Paolo Benvenuti”
a cura di Alberto Morsiani e Serena Augusto.
Il Castoro edizioni.