Andare a Torino per il suo Festival vuol dire scommettere con se stessi: più film, più scrittura, più profondità di sguardo, più scoperte, più scatti fotografici, più libri da portare via…
Insomma Torino Film Festival come totalità.
Nel viaggio in macchina “la luce gelida e trasparente del mattino si apre su paese arroccato d’un giallo arancione con finestre come quadri di Carrà”, visione fugace, mentre la musica di Thelonious Monk “ti prende per mano, dialoga con te, non ti abbandona”
In segreteria ragazza dalla pelle nivea, gentile… Tessera stampa in un volo.
Novità? Sono cambiate le regole. Ci vuole, oltre la tessera, il biglietto da prendere (gratuitamente) alle biglietterie per le visioni serali. Davanti al cinema Massimo, nella fila, l’amico bestemmia a voce alta come un antico toscano.
Sarà un problema del primo giorno. Dopo non ci saranno problemi, se non qualche inevitabile fila.
Primo giorno.
Su Contre Toi di Lola Doillon ho già scritto. Aggiungo solo un dettaglio di una sequenza. I due protagonisti che si baciano con voracità animalesca, perché sentimenti fortissimi di odio, ma anche di solitudine si sciolgono in un’attrazione che da un certo momento in poi inizia a covare per infine esplodere.
Vedo male, tra sonno arretrato e fase digestiva, La foret des Songes di Antoine Barraud , ritratto del regista giapponese Kohei Oguri. Mi colpisce, alla fine, la voce fuori campo (di Barraud?), che nel confronto tra felicità e poesia dichiara di preferire la poesia, perchè più inclusiva di tutta la vasta gamma dei sentimenti umani.
The Hunter del regista iraniano Rafi Pitts è, tra i film visti, uno dei più intensi e riusciti. Un film che ha la forza delle immagini e della storia. Immagini urbane, di solitudine e di caos, di silenzio e di sguardi, dell’amore tenero per moglie e figlia, di delitti di stato e di vendette… Un film sulla violenza del potere iraniano, sulla rivolta individuale e sull’impotenza. Un film metaforico con molte sorprendenti svolte narrative, in cui alla fine trionfano il cinismo, la violenza. Assolutamente da vedere. Sarà distribuito, in Italia, dalla Fandango.
Seconda giornata.
La neve leggera che cala, ma troppo leggera, che poi si disperde e lascia soltanto esili tracce, per poi sparire.
Su Una vita indipendente e su Vitaly Kanevskij e sul suo attore scriverò a parte. Dico soltanto: è uno dei meriti del TFF e di Gianni Amelio avere proposto la personale.
Il popolo che manca di Andrea Fenoglio e Diego Mometti è un documentario sopra le registrazioni sonore che Nuto Revelli realizzò nei territori rurali e montani del cuneese, durante gli anni ’70. Interessanti quei volti, quei dialetti, quei paesaggi, quei resti di case coloniche, quelle storie, ma il documento rimane troppo lineare, quasi illustrativo, poco personalizzato.
In White Irish Drinkers di John Gray siamo nel 1975 a Brooklyn in una famiglia irlandese con un padre duro e mezzo alcolizzato e due fratelli tra loro molto diversi, con il desiderio comune di evadere: l’uno a colpi di rapina, l’altro con la pittura. Un film robusto, ma troppe volte ri-visto, che ha nella storia di forti sentimenti, amori e odi, legami ancestrali e necessità di rotture, il suo pregio ed insieme il suo limite.
Deludente invece Soulboy del regista irlandese Shimmy Marcus. Una pellicola scritta e diretta per creare l’identificazione e la partecipazione di adolescenti in cerca di modelli. Ricorda “La febbre del sabato sera”, ma viene molto dopo e senza quella perentorietà di sequenze, che hanno avuto la forza scenica e interpretativa di rimanere. Un film non da concorso.
Terza giornata
Stamani la luce. Fotografo lungo le ombre dei portici, nei rimasugli di pozzanghere ancora rimaste, scatti veloci e rapiti nel breve tragitto che porta all’Ambrosio (cinema).
Last Chestnuts di Zhao Ye. Una donna alla ricerca del figlio.Mi piace lo stato di spaesamento in cui la protagonista si trova quando scende dal pullman con solo delle foto su una videocamera, che è pure il nostro spaesamento, perché non sappiamo chi sia, cosa cerchi e perché… Film minimalista, quasi fenomenologico, con improvvise agghiaccianti rivelazioni (la morte del figlio in una telefonata apparentemente laterale alla vicenda). Un dolore cupo e silenzioso, che sfugge alle parole, più implicito che esplicito, che diventa follia. Peccato che non riesca a divenire metafora più grande, poesia che vada oltre il privato di quella vicenda.
Ecco infine quello che sarà il vincitore di TFF 2010, Winter’s Bone della regista statunitense Debra Granik, di cui, qui accanto ragiona Maddalena Ferrari. La primissima impressione: la storia di una famiglia con il padre scomparso, la madre malata, i figli mi fa pensare a scritti in cui Wenders “attacca” la storia-storia con le sue convenzioni… Ma, quasi subito, trovo un punto di vista duro, uno sguardo puro, determinato, quello della protagonista-interprete, la 17enne Jennifer Lawrence, ed una galleria di personaggi altrettanto duri, la durezza del western, cupa di misteri e la storia mi avvince, la sento mia. Trovo tuttavia lo scioglimento del groviglio deludente, troppo legato alla necessità della vicenda, desideroso di gratificare lo spettatore.
Dopo aver visto dei documentari di Kanevskij cerco una combinazione di due film passando da un cinema ad un altro. Entro per vedere Il pratone nel Casilino di Giuseppe Bertolucci, tratto da un capitolo del Petrolio di Pasolini, in cui il protagonista viene sodomizzato da un gruppo di giovani. Non lo vedrò. Giuseppe Bertolucci viene insignito del premio Maria Adriana Prolo ed ho la possibilità di apprezzare la voce calda e le osservazioni affettuosamente acute della “laudatio” di Fabrizio Gifuni al regista parmense.
Inizia infatti il film finlandese Taulukauppiaat del giovane Juho Kuosmanen, vincitore della Cinéfondation di Cannes, di cui si dice un gran bene.
Un freddo road movie tra il paesaggio innevato finlandese e un trio poco integrato: un diciottenne indecifrabile, una pittrice malata di cancro e il patrigno del ragazzo, che dovrebbe vendere i quadri. Film minimalista, gelido, sospeso e indefinito. Esistenze alla deriva in silenzio. Un regista da ri-vedere.
E’ corroborante a sera tarda, affamati, mangiare in una di quelle pizzerie-trattorie calde, dopo aver passato la giornata tra visioni e visioni, letture e scritture fugaci, rincorse e parole.
Quarta giornata
Atto primo: la colazione abbondante dell’albergo con il dettaglio di magnifiche brioche (torinesi) per poi precipitarsi in tempo a vedere un film assai atteso Inside America di Barbara Eder. Siamo in una cittadina texana a pochi chilometri dal confine col Messico. Il film segue sei ragazzi all’ultimo anno di una scuola superiore, che educa a come diventare dei veri cittadini americani. Film psico-sociologico, che corrode dall’interno i miti del successo americano e ne fa vedere i drammi latenti. Efficace narrativamente con un finale smodato fin troppo emotivo.
Les Hommes debout di Jèrémy Gravayat. Temi nobili: l’emigrazione, la durezza del lavoro in fabbrica, gli smantellamenti produttivi, l’emarginazione; ma manca la regia, che dia ordine e corpo.
Molto atteso il debutto alla regia di un grande attore come Philip Seymour Hoffman con JackGoes Boating. E non (mi) delude. Una storia d’amore introversa e delicata con ironia affettuosa, senza tralasciare qualche durezza.
Si vede con piacere un noir come Small Town Murder Songs del regista canadese Ed Gass–Donnelly per il mistero del delitto, per la comunità del villaggio mennonita nell’Ontario. La pellicola, però, non va oltre il genere, anche se lo vorrebbe, perché i protagonisti rimangono fissati nello stereotipo.
E poi ci sono i cortometraggi di Michael Nyman e un lungometraggio Nyman with a Movie Camera. Le sue colonne sonore nei film di Greenaway mi hanno, quasi sempre, intrigato molto. Sono curioso. Delusione. Nyman non è un regista. Non ha ne’ l’occhio, ne’ la padronanza della videocamera, non ha tenuta. Anche la musica, che in un Greenaway o nella Campion funziona, nel suo minimalismo reiterato e dinamico, qui si fa ripetitivamente ossessiva, finendo per essere compiaciuta, fine a se stessa. Tentazione di alzarsi, di andarsene.
Ultimo giorno.
Che fare? Vedere un altro film o comprare altri libri in una città in cui nei banchetti puoi trovare libri nuovi e recenti a metà prezzo? Scelgo di girellare tra librerie e banchetti. Poi nevischio, la temperature cala. Meglio partire. Il rischio di trovare la neve per strada esiste. Per strada penso ad un’immagine e vedo Rafi Pitts, regista ed attore di The Hunting, silenzioso e concentrato, disperato e determinato. Lo vedo mentre guarda le strade caotiche e ultra-rumorose di Teheran, mentre si riposa vicino al fuoco nel bosco solitario, mentre ricerca disperatamente la figlia scomparsa, mentre indirizza freddamente il mirino contro il poliziotto.