51 Festival dei Popoli. “This is my land… Hebron” di Giulia Amati e Stephen Natanson

di Ilaria Sabbatini

show_img.phpIn questo preciso momento ho la sensazione di essere una pila troppo carica. Troppe informazioni in testa, un’ondata di pensieri che corrono da una parte all’altra e non so “come” ma soprattutto “quanto” esprimerli. Come scriverli tutti, come restituire quello che ho visto, come rendermi comprensibile al di là dei pregiudizi? Scrivo o non scrivo? Perché una forma la si trova sempre ma io lo voglio fare? Ne vale la pena?

E poi alla fine eccomi qui spinta da un’urgenza che è più forte di tutto, da un bisogno tangibile nelle dita che con un po’ di fatica inseguono, sopra la tastiera, il filo di percorsi mentali multiformi. Percorsi dove il linguaggio e la riflessione sul linguaggio non riescono mai a scindersi.  Come se non riuscissi a guardare da dentro i miei occhi ma fossi sempre costretta a osservare me stessa in relazione con gli altri, con le opinioni degli altri e soprattutto con questa smania, per me divenuta intollerabile, di prendere le vicende umane come una partita di calcio. Le vite delle persone ridotte alla scelta della parte da cui stare. Io mi sono stancata di come vanno le cose perciò vorrei riuscire ad astrarmi, a tenermi dentro ciò che ho visto godendomi la mia cena notturna e la pienezza di queste giornate. Tutto qui. Ma non ci riesco. Non posso. Il meccanismo della trasmissione non mi lascia alternative e dal momento che ho visto non sono capace di trattenere le parole.

Perché una volta di più quello a cui ho assistito stasera è un film che mi ha profondamente sconcertata e al tempo stesso mi sta imponendo un dialogo con l’esterno. Il Festival dei popoli ha messo in programmazione This is my land… Hebron di Giulia Amati e Stephen Natanson il cui titolo è già di per sé significativo.

Hebron, la terra, ma di chi? Hebron la terra più contesa e più condivisa dove affondano le radici tutte le religioni abramitiche. La tomba di Abramo, venerato come profeta dai grandi monoteismi e che è, oggi, la terra dell’odio e della segregazione. Giulia Amati e Stephen Natanson colpiscono subito per il loro modo di porsi direi quasi “minimalista”. Vogliono parlare dopo il film, dicono il necessario e hanno entrambi una dolcezza e una pacatezza che ho visto raramente in chi proviene da esperienze in zona di guerra. Mi aspettavo dei militanti onniscienti e un po’ arroganti, non so perché, e invece eccoli lì, Giulia e Stephen, con la piena consapevolezza delle loro proporzioni, di quanto siano piccoli rispetto alla storia e alle storie che hanno documentato. Si concedono perfino il lusso di essere modesti, di esserlo veramente senza mostrarlo, e le cose le scopri mano a mano che il pubblico fa le domande, chiede dettagli, impressioni. Un fila di mani che prenotano il microfono per chiedere, per sapere. Troppe domande e troppo poco tempo così rinuncio a fare la mia e mi metto semplicemente ad ascoltare. Che difficoltà avete avuto? Come avete lavorato? E infine: com’è nato il film? Giulia dice subito che è stato un caso e si stenta veramente a crederlo. Un film così intenso ti aspetteresti fosse stato pensato e ripensato molte volte prima di mettere mano alla videocamera. Invece no, lei dice che sapeva ben poco di Hebron e che è partita con un progetto Euroepo per insegnare filmaking in un centro multimediale. Era uno dei quattro laboratori che elenca. All’inizio, racconta, non vedi niente di Hebron, non ti accorgi di quello che accade, vedi solo che è una città bellissima. Poi, dopo un paio di settimane, cominci a notare il mercato è chiuso, l’assenza di botteghe, le case con fitte grate lungo scale e terrazzi. E alla fine cominci a conoscere la gente. Intervisti i primi poi altri, pensi solo di girare dal momento che sei lì e ne hai l’occasione. Ma la voce si diffonde e gli incontri si moltiplicano finché, racconta, non ha incontrato un ex-soldato israeliano che dopo aver dedicato vari anni alla carriera militare ha deciso di interromperla perché non poteva più sopportare quella vita.

E quell’incontro è la data di nascita del film perché tutto ruota intorno a lui, all’ex soldato che dalla vita nell’esercito è passato direttamente alla fondazione, insieme ad altri ex-militari, di Breaking the Silence e oggi fa la guida nella Hebron dell’occupazione. Yehuda Shaul, questo il suo nome, illustra alle delegazioni come si vive a Hebron. E inizia così un implacabile viaggio nel delirio dell’incalzante ostilità dei coloni tra sputi e sassate, offese piccole e grandi, violenze che si fanno più piccole e frequenti per passare attraverso le grate. E’ allora che capisci fino in fondo come le grate di ferro servano a difendere i palestinesi le cui case sono letteralmente trasformate in gabbie.

Ma Giulia vuole raccontare anche la controparte, intervistare i coloni israeliani, ed è così che coinvolge Stephen Natanson, per tentare mediare con i coloni in quanto ebreo. Così il progetto prende forma e nell’arco dei tre anni di lavorazione li porta a raccogliere un’enorme quantità di materiale dagli archivi di Breaking the Silence, di B’Tselem il centro di documentazione israeliano per i diritti umani e di molti altri che il film cita.

L’ex soldato Yehuda Shaul è il filo conduttore che da un senso a questa follia che vedo. Facce di bambini deformate dalle espressioni di rabbia, bambini che si scagliano contro altri bambini come se fossero adulti, bambini che battono contro le reti che proteggono gli altri bambini. Facce di madri che mutate in una maschera tesa offendono altre madri, facce di persone che raccontano di volersi sentire libere segregando altre persone e militarizzando le strade. So per certo che quanto scrivo sarà male interpretato da una parte di chi mi leggerà. Ho scritto pochissimo del film e sembra già troppo. Ma non mi importa. Io scrivo per la gran quantità di persone che pensano a una prospettiva diversa, soprattutto per quegli ebrei che si impegnano per il dialogo. Perché in qualche modo inspiegabile sento di doverglielo. Ascoltavo le affermazioni razziste di alcune colone che nella più totale buona fede dicevano che sì, gli arabi hanno altre terre e se ai Palestinesi non piace come stanno le cose se ne devono andare nei paesi musulmani. Ascoltavo quando dicevano che i palestinesi non si illudessero di poter governare perché uno stato palestinese non esiste né ha alcun diritto ad esistere. Ascoltavo quando dicevano che loro, i coloni, potevano prendere le olive degli oliveti palestinesi perché quella è la terra di Israele. Assistevo al parossismo ipnotico di quell’isteria e pensavo invece alle persone che conosco. Forse è per questo che ho aperto ancora di più le orecchie e gli occhi, per assorbire il più possibile e non sottrarmi. Per tutte quelle persone che si possono riassumere nel nome di Yehuda Shaul. Che grazie alla sua lealtà umana adesso conduce chi lo desidera  nell’implacabile viaggio dentro uno degli inferni peggiori dell’occupazione.

Non sono riuscita a parlare del film ma solo della sua storia. In realtà questo è un film che non si riesce a raccontare, troppi dettagli, troppe violenze, troppe offese. Quattro attori in gioco: palestinesi, coloni, pacifisti israeliani, esercito. Con ruoli mutevoli e sorprendenti. Per la prima volta ho visto un soldato di Tsahal cercare di difendere dei palestinesi. I soldati, diceva Yehuda Shaul, sono qui per mantenere l’equilibrio per entrambi ma in realtà pensano di doversi schierare a difesa dei coloni, sempre. Ma diversi militari si sono stancati perché i coloni li trattano come il proprio esercito privato. Così rinunciano. Quasi nessuno vuole prestare servizio a Hebron e alcuni se ne vanno dall’esercito. “Io – dice Yehuda – passavo le giornate a chiudere negozi e perquisire le stesse case ogni giorno”. Poi, durante le festività, il sabato e la domenica i coloni vogliono andarsene in giro per le strade e sentirsi sicuri così non hanno trovato soluzione migliore che imporre un coprifuoco di due giorni interi senza interruzioni, oltre ovviamente a quello quotidiano già in vigore. Due giorni la settimana rinchiusi in casa senza poter uscire, negozi sigillati, mercato chiuso, grate a tutti gli ingressi. Così, ha pensato Yehuda, non si può andare avanti, è una follia. E a rinunciato alla carriera nell’esercito. Ma non a Hebron. Adesso i coloni lo apostrofano come nazista e traditore.  Eppure, a differenza di lui, nessuno degli attuali coloni di Hebron è nato lì. Gli ebrei israeliani di Hebron si sono trasferiti altrove. Le donne che hanno invocato l’espulsione dei palestinesi sono tutte americane, immigrate di prima generazione. Allora capisci tutta l’importanza e il peso del lavoro di Yehuda e della sua associazione Breaking the Silence verso cui i registi indirizzano quelli che vorrebbero continuare a fare domande. Questo e molto di più racconta il film. Anzi in queste poche righe ho deciso di ridurre al minimo le descrizioni. Mi sono imposta una rigida restrizione perché si tratta più che mai di un film con cui confrontarsi visivamente. Da qualsiasi parte della barricata si pensi  di stare.

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Regia, soggetto, sceneggiatura: Giulia Amati Stephen Natanson
montaggio: Giulia Amati
effetti: Victor Perez
fotografia: Giulia Amati Stephen Natanson Boris Sclauzero
suono: Matteo Di Simone Piernicola Di Muro
Anno di produzione: 2010
Durata: 72′
Tipologia: documentario


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