di Ilaria Sabbatini
Appena uscita dalla visione di My reincarnation, con la radiocronaca di Lazio-Napoli nelle orecchie, la spuma bionda sul tavolino a perenne memoria della mia infanzia nei bar di quartiere e la sigaretta in mano, mi affretto a prendere nota delle mie sensazioni prima che scompaiano. Inizio subito male, notando come sia stata profonda l’interazione con la mia cultura dal momento che nella foga di scrivere ho automaticamente segnalato il titolo come My ressurection.
Sì, questo film non lascia in pace la dimensione spirituale di nessuno neppure di una laica come mi ritengo. Forse perché è la storia molto personale di un dialogo frammentato tra padre e figlio sullo sfondo degli insegnamenti Dzogchen, la via più alta, che contrariamente agli usi tibetani il maestro Norbu ha aperto agli occidentali.
Chi si aspettasse un film encomiastico sul buddismo rimarrebbe deluso, chi invece, come me, si presentasse con la sua dotazione regolamentare di ideologica razionalità si prepari a sorridere di se stesso. Questo film scontenterà molti ed è proprio questo il suo bello. Non compiace nessuno e non vuole piacere perciò racconta, come un lungo percorso, una sorta di avventura spirituale.
Due cose ha sollecitato nella mia testa: la passione per le saghe familiari e l’attenzione verso quella dimensione spirituale che, a prescindere dalle specificità assunta, accomuna tanta parte del genere umano. Devo dire che la mia approssimativa conoscenza del buddismo, di cui come molti conosco solo gli aspetti più generali, mi ha indotta istintivamente alla curiosità. In un certo senso non è stata una condizione del tutto svantaggiosa dal momento che mi ha permesso di guardare con lo sguardo pulito di chi vuole soprattutto capire.
La storia inizia parlando di Norbu e della sua prima formazione: un bambino di una famiglia povera, che dopo esser stato riconosciuto come la reincarnazione di un precedente maestro, entra in un monastero tibetano dove soffre i rigori di una severa educazione e il peso della sua predestinazione. Un bambino preparato fin da piccolo ad essere un maestro. Divenuto ragazzo crescendo in mezzo ai suoi mentori, allo scoppiare della rivoluzione cinese decide di lasciare il Tibet e trasferirsi in Italia. Portandosi dietro il pensante fardello della consapevolezza della sua reincarnazione riparte da zero e comincia una nuova vita diffondendo gli insegnamenti Dzogchen e insegnando la cultura tibetana. Dopo aver sposato un’italiana ha due figli un maschio e una femmina. Ed è proprio il rapporto con il figlio maschio Yeshi ad essere al centro della narrazione. Un tempo lunghissimo che Jennifer Fox ha spiegato essere effettivamente il tempo di realizzazione del film che si svolge nell’arco di venti anni con l’incredibile quantità di un migliaio di ore di girato. Jennifer, che già allora era una cineasta, ha iniziato a girare, pur senza avere una idea precisa, come studente di Norbu e grazie alla vicinanza alla sua famiglia ha potuto cominciare a realizzare le interviste. Dopo il 2000 è iniziata la fase di montaggio ma la svolta effettiva è avvenuta quando, proprio durante la lavorazione si è manifestata in Yeshi, il figlio di Norbu, la natura di reincarnazione di un precedente maestro che era stato suo zio e maestro di suo padre. Yeshi diventa così la figura chiave del racconto e il film assume sempre più la caratterizzazione di metafora spirituale seguendo il suo percorso di rifiuto e poi di ritorno. Sono 100 minuti intensi che trascinano in un universo interiore completamente nuovo per un occidentale e che indagano non solo un difficile rapporto tra generazioni, ma anche tra quello, ancora più complesso, tra un maestro e il suo discepolo che però è anche suo figlio. Dopo anni di allontanamento in nome dell’affermazione della propria individualità, nella precisa volontà di sottrarsi a un destino come maestro successore del padre, Yeshi, che nel frattempo si è costruito una carriera nell’IBM, decide di intraprendere la via spirituale. Non più però come figlio del maestro ma come semplice studente. Ecco che a questo punto accade ciò a cui una laica razionale come me si vorrebbe ribellare. Il figlio ritorna, stavolta in modo autonomo e volontario, per avvicinarsi alla spiritualità del padre, mai esente da contraddizioni (anche per la bravura filmica di Jennifer Fox), mai banalmente buonista ma sempre combattuta in un uomo scisso tra personaggio pubblico e persona privata. Così Yeshi diventa un’atipica figura di maestro: racconta della scuola dalle suore (ammonisce però il traduttore di non riferire che è entrato in monastero), dei segni che hanno costellato la sua vita, e dei sogni che rivelano la sua precedente natura fino a prefigurare in una delle sue visioni un preciso paesaggio tibetano che potrà rivedere quando deciderà di tornare in Tibet. E allora la storia assume una sorta di perfetta circolarità, un’esatta simmetria. Il padre buddista perseguitato è costretto a lasciare il Tibet per rifugiarsi in Italia a portare il suo insegnamento. Il figlio laico e occidentalizzato fin nei più profondi valori percorre a ritroso le stesse orme del padre, come se quello che era stato sottratto al Tibet venisse adesso restituito. Yeshi ritorna così in Tibet dove molti lo attendono fino alla scena sorprendente in cui questo strano maestro dall’accento spiccatamente romano avvolge la sciarpa bianca al collo di un militare in divisa. L’acqua è il filo conduttore di questo film e giustamente ne rappresenta l’emblema. E’ il Samsara che come l’oceano avvolge tutti siamo e dove tutti dobbiamo imparare a nuotare. A una certo punto della sua vecchiaia che costituisce una delle quattro sofferenza dell’uomo insieme alla nascita, alla malattia e alla morte Norbu sviluppa un cancro e, pensando di non avere chance, comincia a prepararsi alla morte. Ma ha un’intuizione, di nuovo la metafora dell’acqua, per cui comincia a ricreare nella sua mente la sensazione di vivere in contatto con gli elementi della natura. La meditazione e la disciplina, secondo la sua interpretazione, fanno retrocedere la malattia. Cosicché per lui inizia una nuova fase segnata da un cambio radicale e da un diverso rapporto con il figlio ormai divenuto parte integrante della comunità fondata dal padre.
Non è il caso di tirare in ballo il mio scetticismo perché in questo contesto è del tutto superfluo. Quello che mi ha profondamente colpito è la natura complessa di questa forma di spiritualità che non è presentata come un mare in bonaccia, tanto per rimanere fedeli alla metafora dell’acqua. A me ha fatto pensare piuttosto a una domanda mai definitivamente risposta. O meglio al desiderio di una risposta per cui non si conosce ancora la domanda. A una ricerca immobile e incessante, a un combattimento quieto, a una lotta silenziosa tra l’uomo, i suoi desideri, le sue aspirazioni e i suoi bisogni. Certo, silenziosa e quieta, non significano anestetizzata. Il dolore è reale: quello del figlio nei confronti di un padre che non risponde, quello di un uomo alle prese con la malattia, quello dei discepoli afflitti da problemi e sofferenze di ogni tipo.
Di fronte a questo film si capisce come la profonda domanda di spiritualità che ha sempre accompagnato l’uomo oggi abbia ripreso vigore. E in ultimo questo film ci interroga sulla nostra dimensione spirituale. Personalmente non come praticante. Ma si certo come credente in una dimensione spirituale che fatico ancora a definire. Come se la sua natura non fosse quella di una specifica fede, ma di una sorta di rispetto che trascende le singole specificità. Come se la fede primaria fosse non quella nella dottrina ma nel dialogo tra le fedi. Poco importa che creda nella reincarnazione; e il fatto che non ci creda paradossalmente non significa nemmeno che per me non possa esser vero. Se Yeshi ritiene di essere la reincarnazione del maestro Khyentse e ne adduce le prove perché io, di formazione occidentale e cristiana, devo pormi il problema se sia vero o meno? Perché devo chiedermi se crederci o se rifiutare questa credenza? Non è mio il compito. Non sono io ad essere interpellata da quelle visioni, ma un altro uomo ed è la sua verità che conta, in questo caso, non la mia. Il suo universo spirituale non il mio. Io non credo nella reincarnazione. Ma di certo il fatto che altre persone ci credano non minaccia né mette in discussione le mie credenze e nemmeno la mia eventuale assenza di credenze religiose. In campo spirituale non penso che una verità ne neghi un’altra, ma semplicemente per ciascuno la spiritualità si è modellata in forme differenti. Qualsiasi fede può condizionare le scelte individuali e perfino politiche delle persone. In questo senso le religioni, che lo si voglia o no, hanno implicazioni sociali di grandissimo peso. Ma ciò che viene prima di ogni altra credenza, per me, è la fede nella natura umana. Ed in nome di quella fede sono disposta ad accettare che una parte consistente dell’umanità creda in ciò in cui io non credo senza per questo essermi rivale. Questa è la mia fede. E ringrazio Jennifer Fox di essersi voluta confrontare mediante questo film.
My Reincarnation di Jennifer Fox. . Documentario. Svizzera, Paesi Bassi, Italia, Germania, Finlandia 2010. Dur: 100 min.