Shutter Island: un’opera ambiziosa e complessa

di Riccardo Dalle Luche

martinAmbientato nei primi anni ’50, Shutter Island rinvia stilisticamente, oltre che nell’ambientazione, a quegli anni: sembra, cioè, un film girato negli anni in cui la vicenda si svolgeva, per cui vi troviamo i fondali contro cui si proiettano i personaggi in primo piano, le scenografie che si congiungono e accrescono le location naturali e tutta una serie di effetti speciali d’annata che conservano tutto il fascino delle “piccole cose di pessimo gusto” con cui erano fatti i film di una volta. In realtà la messa in scena, che mescola senza soluzione di continuità la scena “reale”, la scena del sogno e quella della psicosi, unite da una gelida luce invernale e da una colonna sonora insolita e strabiliante, nella quale spiccano brani di Gyorgy Ligeti, Eno, Cage e altri autori di musica “alta” contemporanea, mostra come si possano fare ancora oggi grandi film con queste povere cose.

Sui contenuti molti si sono già soffermati: ambientato in un mitico manicomio criminale situato su un’isola a largo di Boston, che rievoca forse non casualmente, “L’isola dei morti” di Böcklin, cara sia a Freud che a Hitler, il film si dipana raccontando una sequenza di fatti visti prima dalla prospettiva soggettiva del protagonista psicotico, che si ritiene ed in effetti appare come un investigatore, poi, progressivamente, dopo un lungo processo psichico di svelamento, dalla prospettiva oggettiva degli psichiatri che l’hanno in cura perché uccise la moglie dopo che questa aveva a sua volta sterminato i loro tre figli. Si tratta dello stesso schema narrativo usato da Cronenberg in “Spider”, anche se qui l’ambientazione e gli arredamenti “viscontiani” del sontuoso manicomio criminale (scenografie di Dante Ferretti) è ben lontana dagli appartamenti della periferia inglese di quella vicenda post-manicomiale.

Il cinema ancora una volta si dimostra un linguaggio straordinario per rappresentare i percorsi della mente deviata su territori irreali, con tutte le angosce ed i relativi meccanismi difensivi che li strutturano.

Ma molto altro si può dire su questo film enciclopedico, e molti sono i film a cui la mente fa riferimento: dalle angosce paranoidi de “Il gabinetto del dottor Caligari”, a quelle depressive de “Le catene della colpa” di Jacques Tournier a “La scala a chiocciola” di Syodmak, e a molti altri che Scorsese ha studiato nei suoi importanti montaggi didattici sulla storia del cinema americano e europeo.

E non basta: l’espediente dei ricordi legati ai campo di sterminio di Dachau, alla cui liberazione il protagonista aveva partecipato, apre il filone di tutti i film sui campi di concentramento, la Shoah e il sadismo nazista, le cui tematiche più che cupe e angosciose non fanno che moltiplicare ulteriormente quelle connesse allo psicocinema e all’istituzione manicomiale intesa come macchina sociale repressiva sotto mentite spoglie. E’ chiaro che il vero soggetto di questo film è, filo rosso nella produzione di Scorsese, la violenza umana, o meglio, le vicende di “uomini di violenza”, termine coniato non certo a caso dallo psichiatra decano nel film.

“Shutter Island” è comunque soprattutto un esercizio di stile ed un’esibizione di conoscenze cinematografiche prima di essere un film drammatico, uno psiconoir o un horror gotico, come dir si voglia. E’ un film per cinefili più che per il grande pubblico, che può facilmente rimanere disorientato dalla complessità apparente dell’intreccio, quando non semplicemente disturbato dalla forza delle immagini oniriche, alluicinatorie e dalla ricostruzione dei ricordi traumatici, la cui bellezza non riesce a stemperarne l’angosciosità.

Io penso che il tempo darà comunque ragione a Scorsese, che ritrova con quest’opera ambiziosa e complessa, da rivedere e da studiare, i vertici (raggiunti in altri generi e altre estetiche) di “Toro Scatenato”, di “Casinò” e di “Lezioni di vero”, tanto per citare pochi titoli.

Certamente Di Caprio non è De Niro e neanche Nick Nolte, è “troppo americano” e questo ci impedisce di immedesimarsi a lui ed amarlo; straordinario è invece Max von Sydow, qui genialmente recuperato nei panni di un vecchio psichiatra tradizionalista, vissuto persecutoriamente dal protagonista e molte delle attrici minori, nei personaggi della moglie folle, presenza allucinatoria nonostante tutto benevola e protettrice, della figlioletta uccisa e di alcune ricoverate del manicomio.

LHA 1090 said,

Marzo 17, 2010 @ 19:15

Lieti ?!?

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