di Giovanna Morelli
L’uomo che verrà : un film italiano a cura di un team coraggioso e promettente; un film italiano che vince sostanzialmente la sua scommessa, in un panorama nazionale che, per carità di patria, ci sforziamo a tutti i costi di voler salvare. Il film, diretto da Giorgio Diritti, co-produttore con Simone Bachini, costeggia ma evita quei fronti scivolosi cari a certa cinematografia nostrana, Tornatore docet, la quale dosa, con calcolato effetto, cornici vintage, sentimentalismo, e ricostruzioni para-sociologiche d’ambiente dove prevale in realtà un disinvolto macchiettismo.
Giorgio Diritti sceglie di raccontare una storia “dal vero” , l’ennesima storia italiana di resistenza partigiana, culminante nell’atroce rappresaglia dell’Appennino bolognese, sterminio di donne vecchi e bambini; e racconta attingendo alle cronache e agli archivi, usando il dialetto e molti volti colti dalla strada.
Ma Diritti ha al suo arco frecce che gli consentono di ritrovare il cinema “vero” , nel senso di cinema-sguardo, oltre l’equivoco di ogni neo-neo-realismo in senso banalmente documentario: un sottile, quasi impalpabile brivido di vertigine stilistica – la sua cifra è proprio questa impalpabilità- che interpreta e ri-crea i suoi dati come si conviene a ogni cinema degno del nome.
Ed ecco allora questa cifra giocata sul togliere, sull’alleggerire (anche nella sensibile colonna sonora di Marco Biscarini e Daniele Furlati), senza tuttavia perdere in drammaticità anzi acquistandone. La cinepresa si dissocia stilisticamente dall’orrore che racconta; dilata, o glissa, o sospende la ripresa, attutisce il sonoro. Diritti riapre l’occhio della pietas che ormai non ci appartiene più.
Siamo troppo viziati a quella piazza televisiva e di rete dove veri corpi straziati sono continuamente e oscenamente profanati; mentre allo strazio si converrebbe solo lo sguardo che si esponga al diretto, straziante e meditativo contatto con esso, e poi lo narri, nelle appropriate parole, senza il bisogno di mentirlo in immagini che tradiscono più di quanto testimoniano.
Diritti dunque non ama mentire e profanare, come pure è lontano dall’iper realismo tragico e masochista di Von Trier, che nei suoi rituali di iniziazione/espiazione espressionista cerca una strada per catturare il nefas nella rappresentazione; Diritti sceglie la via quasi meta-filmica dello sguardo collaterale, della storia marginale alla Storia: la bambina muta ed occhiuta, la silenziosa cantastorie che accompagna gli eventi, quasi un angelo wendersiano smemorato dei propri natali, inconsapevole portatrice di un “passo” diverso rispetto a quello violento e gigantesco della Storia.
Eppure è proprio e solo in ognuno di questi piccoli passi che la Storia esiste davvero, come Elsa Morante ci narrò a suo tempo; è nella reale moltitudine di tutti i singoli, anonimi, dimenticati corpi e destini che è scritto il reale senso o non senso della Storia. Corpi pieni di un desiderio nascente e sino all’ultimo stampato sui volti, dietro rughe e dolore…
Uno sguardo, quello di Diritti, che riesce a evitare la retorica in virtù della sua autenticità stilistica: fotografie autunnali, indugi lungo boschi sospesi e seppiati come in un sogno alla Sokurov, interni deserti con le loro geometrie plasmate per sempre dalla vita mancata… cantilene e ninnenanne che stanno come sospese prima o dopo dei corpi; insomma un cinema che sembra in grado di captare la scia, l’eco infinita degli eventi, oltre il nostro povero mito epocale della cronaca. Eco infinita perché idealmente moltiplicata per ognuno di coloro che patirono, e patiranno, e fecero a loro volta patire, e risorgeranno, se risorgeranno, come la piccola cantastorie del film. Una piccola vita già esposta a inenarrabili ferite che possono persino togliere la parola, eppure custode di un piccolo fuoco sotto la cenere, di una voce che tornerà.
Diritti si concede un lirismo asciutto, canalizzato dal basso (o dall’alto) di quello sguardo marginale e in certo modo equanime, spre-giudicato, capace di cogliere un dramma corale. In tale flusso collettivo carnefici e vittime appaiono entrambi miserevolmente manovrati dalla spirale di un gioco che non troverà mai fine, se non in una radicale parola di pace.
Così anche la buffa faccetta troppo vista di Vito, la riconoscibile bellezza di una Maya Sansa o il déjà vu del giovane tedesco feticista e spietato, non disturbano o sbilanciano più di tanto il passo corale, anonimo e metastorico del film, un passo che non necessita di facce note che sforano, né di eccessive preoccupazioni didascaliche o citazioni “di genere”.
Ci auguriamo che Diritti approfondisca sempre di più questo suo sguardo spregiudicato e, nel frattempo, cerchiamo di vederci ( o ri-vederci , se siamo stati tanto bravi da averlo captato a tempo) il suo primo film Il vento fa il suo giro .