di Gianni Quilici
E’ un’intervista, di Truman Capote a Marlon Brando, magistrale. Anzi non è un’intervista. In un’intervista comunemente intesa ci sono domande e risposte. Qui più che domande c’è un aprirsi, un monologo. O, conoscendo i fatti, c’è un segreto nell’arte di intervistare [Truman Capote la delinea così: “…far in modo che l’altro pensi che sia lui ad intervistarti. Tu cominci a raccontargli di te, e piano piano tessi la rete finché l’altro non ti racconta tutto di sé”], che mette in condizione Marlon Brando di aprirsi intimamente.
Qui più che domande c’è lo sguardo visivo prodigioso di Truman Capote che scruta in primo piano l’attore (nel volto, nella modulazione della voce, nei gesti) con il contesto gispponese (la camera dell’hotel lussuosa e piena di confusione, l’amico con cui scrive una sceneggiatura “piuttosto giovane, dall’aria dimessa”, le cameriere ridarelle, a passettini schettinanti, a causa del kimono) e tutto serve, confluisce a creare un ritratto, una situazione, una istantanea. Un reportage, un racconto di alta letteratura.
Marlon Brando scorre dinnanzi a noi come in un cinema verità tra il passato di attore sconosciuto e però già ribelle (Truman Capote lo aveva visto nel 1947, dieci anni prima, sconosciuto sdraiato sopra un tavolo sul palcoscenico della platea deserta e a quel corpo tarchiato da palestra si sovrapponeva -nel volto- “una raffinatezza e una gentilezza quasi angeliche”) e quel presente, in cui si rivela progressivamente con le sue spavalderie e insicurezze, inconguenze e ossessioni, insoddisfazioni e ricerche, dolori che vengono da lontano.
“Andavo a zonzo per New York, camminavo per le strade a notte fonda…e non vedevo niente. Non ero neppure sicuro che recitare fosse quello che realmente volevo fare. Non lo so neanche adesso…”
“…ho preso in seria considerazione…ho pensato molto seriamente di..di lasciar perdere tutto. Baracca e burattini. A che serve…a cosa serve mai, essere un attore di successo se..se non si evolve…”
“Non ci riesco. Ad amare nessuno. Non riesco a fidarmi tanto di qualcuno per fargli dono di me stesso….”
Ma il momento più intimo è nel finale, prima che Truman Capote se ne vada, quando l’attore parla di sua madre.
“E poi un giorno non me ne importava più. Lei era là..in una stanza..e si aggrappava a me. E io la lasciai cadere. Perché non ne potevo più..Vederla andare in pezzi, di fronte a me, come un oggetto di porcellana. Le passai sopra, la scavalcai e via, me ne andai, uscii dalla stanza. Ero indifferente. Da allora, sono sempre stato indifferente”.
Sembra di sentire quei monologhi concentratissimi de “L’ultimo tango a Parigi” per ciò che dice e per il modo in cui Capote lo descrive: “ …una voce pacata, in un certo qual modo coltivata, garbata, e tuttavia sorprendentemente adolescenziale, una voce che aveva un non so che di querulo, inquisitivo, fanciullesco parve provenire da una sonnolenta distanza….. come se parlasse per udire se stesso…”
Truman Capote. Il Duca nel suo dominio. (The Duke in His Domain) traduzione di Pier Francesco Paolini. A cura di Gigliola Nocera. Euro 6,80.
L’incontro tra Marlon Brando e Truman Capote ebbe luogo a Kyoto, in Giappone, nel 1956, dove l’attore si trovava per girare il suo decimo film Sayonara di Joshua Logan.