John Belushi – tragicamente scomparso a soli 33 anni nel 1982 dopo una breve ma fulminante carriera -, era un fenomeno della natura, un genio della commedia, un concentrato di vitalità, energia anarchica e distruttiva, un uomo che avrebbe potuto dare tantissimo al cinema e che è morto – come diceva in un suo sketch profetico -, secondo il motto “vivi velocemente, muori giovane e lascia un bel cadavere”. Beh, il suo cadavere non sarà stato sicuramente bello in quella stanza dello Chateau Marmont, affogato nel grasso e nel vomito dopo l’overdose fatale di speedball. Una morte stupida, voluta e cercata, di un uomo che non riusciva a stare fermo e che – nonostante l’amore che lo circondava -, non aveva mai amato se stesso. Una candela, come dicono gli americani, bruciata da entrambe le estremità.
Me ne innamorai fin dalla prima volta che lo vidi, in 1941 di Steven Spielberg, pilotare un aereo col sigaro in bocca. Poi arrivarono Animal House, con l’indimenticabile Bluto, l’uomo più estremo e schifoso e al tempo stesso disgustosamente attraente che avessi mai visto, e The Blues Brothers, in cui lo scoprii anche cantante, acrobata e ballerino. Poi Chiamami Aquila, dove era un reporter di Chicago mandato per punizione a intervistare una bella ornitologa sulle montagne rocciose. E infine I vicini di casa, che da noi uscì prima dell’altro, ma che fu in effetti l’ultimo, e sul cui set ne successero di tutti i colori, con Belushi e Aykroyd uniti contro il regista John Avildsen, quello di Rocky. Nel film John interpretava un quarantenne mesto e represso, la cui grigia esistenza veniva travolta dall’arrivo di una coppia di folli, magri e bellissimi vicini di casa grazie ai quali imparava a vivere. Finiva che abbandonava la sua vita triste, dava fuoco alla casa e partiva con i due alla ricerca di nuove avventure. Una performance da brivido, e purtroppo l’ultima.
In principio, però, c’era stato il Saturday Night Live – e i “Not Ready for Prime Time Players”. Nel gruppo di talentuosi attori composto tra gli altri da Bill Murray, Dan Aykroyd, Gilda Radner e Chevy Chase, Belushi era la stella più brillante.
Di recente mi sono comprata in dvd (l’avevo visto vent’anni fa in vhs) “The Best of John Belushi” al Saturday Night Live e il cofanetto della prima stagione dello show, e ho potuto riammirarlo nel suo momento di massimo fulgore. Ogni sabato, rigorosamente dal vivo, il gruppo di esibiva in una serie di sketch e scenette, o numeri musicali assolutamente memorabili di fronte a un pubblico in delirio. Ecco “Samurai Delikatessen” o “Samurai Night Fever” in cui Belushi ibrida il mito del guerriero giapponese con quello di John Travolta (guest star della serie O.J. Simpson, non ancora omicida assolto).
Eccolo nella sua incredibile imitazione di un Joe Cocker epilettico, sporco, bagnato di birra, che si rotola per terra mentre canta con la sua stessa identica voce “With a Little Help From My Friends”. Eccolo interpretare il Vito Corleone di Marlon Brando durante una seduta di terapia di gruppo diretta da Elliott Gould.Ecco The King Bee, con le antenne e il vestito da ape, ecco i Blues Brothers, eccolo esibirsi in salti mortali e abilissime piroette, leggero come una piuma nonostante la massa corporea. Eccolo proprietario di un fast food greco che serve solo “cheeseburgers, chips and Pepsi”. Le finte pubblicità, la parodia dei supereroi con le loro mogli in cui interpreta un fantastico Hulk. E infine eccolo vecchio nell’episodio più toccante, Don’t Look Back in Anger. In bianco e nero, vediamo un irriconoscibile Belushi con baffi barba cappello e cappotto, mentre si reca con un mazzo di fiori in un cimitero innevato. Con voce chioccia e tremante, ci presenta una ad una le tombe dei suoi colleghi: “Dan Aykroyd… amava troppo la sua Harley. Si sfracellò a 200 chilometri l’ora contro un pilone. Fui chiamato per il riconoscimento. Lo riconobbi dalle dita palmate”. Poi finisce con un sospiro e una lacrima e si chiede “perché? Perché proprio io, che ho sempre vissuto secondo il motto ‘vivi velocemente, muori giovane e lascia un bel cadavere’, perché solo io sono sopravvissuto?”. Poi solleva il sopracciglio, e l’occhio sornione, scuro e brillante, ci guarda mentre dice “ve lo dico io perché… perché sono un ballerino!”, e al suono di una scatenata musichetta balcanica inizia un irresistibile balletto sulle tombe. Ogni volta che lo vedo mi commuovo.
Il giorno che morì John Belushi morì forse la parte più anarchica e folle della mia gioventù.
da La linea dell’occhio
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Gennaio 26, 2011 @ 21:41good text