di Francesco Giani
E’ ormai naturale chiedersi, ad ogni nuovo film di Mann, se sia lecito aspettarsi un inizio ed una fine. Questo perchè le sue opere sono sovente caratterizzate da un flusso narrativo difficile da racchiudere entro i confini di una pellicola. La sensazione è quella di assistere a frammenti di vita che scorrono da tempo immemore, quasi indifferenti alla nostra presenza.
Paradigma perfetto di questa attitudine sono le sue penultime 2 pellicole, Collateral e Miami Vice, la cui realizzazione guarda caso ha coinciso con gli esperimenti sul digitale più radicali intrapresi dal maestro. Si può quasi fantasticare che una tecnologia alla portata di un numero maggiore di persone (responsabile della nascita di una quantità considerevole di film-maker) sposti inevitabilmente il baricentro narrativo nella quotidianità della vita, quasi a catturare anche momenti di intima normalità. Ma sono solo considerazioni superficiali, utili a porre l’attenzione su un altro aspetto della poetica manniana, rintracciabile anche in questo ultimo – bellissimo, per inciso – polar: la capacità di cogliere umanità nella semplicità di un gesto o di una sequenza (apparentemente) di raccordo.
E allora, Dillinger brilla di una carica di romanticismo rintracciabile soprattutto nei momenti in cui, semplicemente, “vive”; nelle rare volte in cui la sua esistenza non è a repentaglio. Un romanticismo forse frutto di un idealizzazione dell’icona Dillinger, ma non per questo meno sincero che in opere come Heat – la sfida o nel gia citato Collateral. E’ inoltre chiaro fin dal titolo originale (Public enemies, al plurale) che il singolo individuo è in realtà parte di un meccanismo complesso, dove ognuno svolge il suo fondamentale compito. Sono i “nemici pubblici”, con le “i” al posto giusto e senza eccezioni. Nella sua rapida ma intensa parabola criminale, John Dillinger non può e non vuole fare a meno dei suoi compagni, ed il progressivo isolamento in cui si troverà man mano che gli eventi si sviluppano lo porterà ad una sorta di consapevolezza del suo destino. Il fantasma Dillinger, incapace di essere notato dalle forze dell’ordine (altro simbolico paradosso) anche quando percorre indisturbato i corridoi e le stanze del distretto di polizia, sente l’appoggio umano e professionale dei suoi “glorious bastards”, a differenza di uno spregevole Baby-Face Nelson (ottimo Stephen Graham, il folle e arrabbiato Combo di This is England), rappresentante illustre di una nuova generazione di fuorilegge senza onore per cui Dillinger non potrà mai provare rispetto.
Curioso allora come l’antagonista Melvin Purvis (Christian Bale), agente dell’ FBI, tenda a bilanciare la carica passionale del protagonista con un atteggiamento asciutto ed una predisposizione “cibernetica” alla concretezza; il suo personaggio è chiamato forse ad un compito sgradevole, in quanto raffreddato nel carisma e destinato ad essere meno appariscente della sua preda. Tuttavia, la sua figura granitica funge egregiamente da termometro degli eventi, catalizzatore di passioni quasi sempre trattenute un attimo prima della loro esplosione. Qui sta forse la più grande contraddizione del personaggio, di un’ importanza unica ai fini narrativi eppure così distante dal fulcro prettamente emozionale della vicenda da risultare un charachter quasi abbozzato, cannibalizzato dall’antieroe Depp.
A metà strada tra questi 2 poli opposti si situa Billie Frechette, il grande amore di Dillinger, interpretata da una meravigliosa Marillion Cotillard (qualcuno la ricorderà come sexy femme fatale nel noir francese Une affaire privée, ma anche nei panni di Edith Piaf nel biopic La vie en rose): occhi da cerbiatto per uno sguardo svenevole, savoire affaire unico. Se Purvis asciuga ogni spinta passionale, Billie al contrario la fa sgorgare come un rubinetto aperto, abbassando ogni difesa di qualunque essere umano (spettatore compreso) ne venga a contatto. L’equilibrio in cui viene a trovarsi Dillinger, che si riflette nella struttura stessa dell’opera di Michael Mann, è allora completo, e gli scarti emozionali che traboccano nel film (l’assedio dell’FBI al cottage dove sono rifugiati Dillinger e Baby-face, la già citata passeggiata nei locali del distretto di polizia, il finale di un lirismo abbagliante, solo per citarne alcuni) diventano momenti indimenticabili, destinati a marchiare a fuoco la pellicola.
Poco importa allora se, a tutto questo, si aggiunge una capacità unica nel gestire le sequenze d’azione (siamo gia abituati a ciò che Mann è in grado di fare, da questo punto di vista); ricorderemo Dillinger per un particolare, per uno sguardo sfuggente, per quel “”Bye bye blackbird” sussurrato verso un orizzonte che tanto ci ricorda il paradiso sognato da Carlito Brigante nel capolavoro di De Palma Carlito’s way. Figli entrambi di un destino scritto, ed entrambi incapaci di sfuggire alle sue regole; ma anche unici nel superare con la loro statura umana il concetto stesso di morte per diventare, di colpo, mito.
NEMICO PUBBLICO [ Public Enemies]
Regia: Michael Mann
Sceneggiatura: Ronan Bennett, Ann Biderman, Michael Mann
Interpreti e personaggi
* Johnny Depp: John Dillinger
* Christian Bale: Melvin Purvis
* Marion Cotillard: Billie Frechette
* Jason Clarke: John ‘Red’ Hamilton
* Channing Tatum: Pretty Boy Floyd
* Billy Crudup: J. Edgar Hoover
* Stephen Lang: Charles Winstead
Fotografia: Dante Spinotti
Montaggio: Paul Rubell, Jeffrey Ford
Effetti speciali:
Musiche: Elliot Goldenthal
Scenografia: Nathan Crowley
Costumi: Colleen Atwood
Paese: USA
Anno: 2009
Durata: 143 min