Torino 2009: diario di un Festival

di Gianni Quilici

27x_Torino_film_festival_2009Voglia di viaggio. Torino è un viaggio nel cinema, nella città.

Mi sveglio troppo presto. Nel parcheggio deserto, a Lucca, mentre aspetto, corro.

Sulla macchina nuvole nere nel cielo sospese. Qualche squarcio di luce, qualche scroscio di pioggia.

Segreteria, tessera, catalogo. Bellissimo il logo del Festival: Orson Welles e Rita Hayworth in La signora di Shangai, moltiplicati a dismisura. 

Primo film: Oshima. Il suo primo film, Il quartiere dell’amore e della speranza, ha un impianto neorealista di adolescenza e povertà, delicato ma anche spietato, in cui già si intravede Oshima nella (contrastata) potenza dei primi e primissimi piani, nella coscienza delle classi e della loro inconciliabilità.

Secondo film, ancora Oshima: Storia segreta del dopoguerra dopo la guerra di Tokyo, del 1970.

Un film visto molto tempo fa. Mi colpì molto. L’inizio è folgorante. Immagini in soggettiva di qualcuno che sta fuggendo con la cinepresa. Immagini sconnesse senza senso della strada ballonzolante, mentre la voce di un ragazzo grida che gli venga restituita la cinepresa… Inizia, poi, una complicata storia di specchi. Non riesco a seguirlo. Vengo colpito da brevi fiammate di sonno. Il sonno allucinato dalle immagini del film diventa un’altalena tra visione-obnubilamento-allucinazione. Mi infastidisce la lingua giapponese dura ed urlata. Il film mi pare intellettualistico e datato. Invece so che non ho capito, che non ho potuto capire niente.

Terzo film: Le refuge di Francois Ozon. L’inizio è potente. Una panoramica su Parigi notturna. Un giovane che cammina lesto. Un palazzo. Una ragazza e un ragazzo distesi su un letto. L’assaporamento dell’eroina da parte di lui, poi di lei. La mattina la madre del ragazzo, ricca e altezzosa, lo trova sul pavimento morto per overdose. Funerali. Discorso commovente. Seppellimento. Liquidazione, più o meno formale, della ragazza incinta. Sequenze veloci, poche ed essenziali parole, immagini che lasciano intuire dei personaggi, un ambiente sociale aggrovigliato, una storia che inizia… La storia si dispiegherà liscia senza sorprese, né emozioni. Intrigante, come spesso succede, il paesaggio francese tra la bellissima costa oceanica ed il verde del paesaggio. Efficaci gli attori. Il finale vuole essere poetico, risulta invece inverosimilmente astratto.

Intervallo: i portici, le piazze la notte hanno la bellezza evocativa della storia.

Quarto film: ancora Oshima, il titolo inglese è “ Three resurrected drunkards”. Tre studenti giapponesi si trovano ad indossare le divise di due disertori dell’esercito coreano.. Commedia quasi farsesca, che mi risulta pesante, di cui non capisco forse le implicazioni politiche-sociali… Giunge il momento in cui dico “basta, non serve…”, lascio sala e cinema e via lungo le strade dritte di Torino nella mattinata di luce domenicale.

Vedo, invece, In a Lonely Place di Nicholas Ray, con un Humphrey Bogart innamorato e violento. Il film ha la piacevolezza della storia, dello splendido bianco e nero, di un finale ben congegnato sul filo di un romanticismo cinico, ma anche con forzature psicologiche-spettacolari (lui che quasi uccide un automobilista, che l’aveva, a ragione, male apostrofato).

Quinto film: due corti accettabili di Antonio Tibaldi , soprattutto il secondo “Kino-Dream”: un 90enne artista tuttofare neworkese, una ragazza espressiva, un Festival. Sguardi, interviste, atmosfere.

Sesto film: 78 minuti soltanto dei 238 realizzati da Luigi Faccini in Storia di una donna amata e di un assassino gentile in cui il regista fa il miracolo di rendere palpitante il racconto di vita di Marina Piperno, produttrice e compagna dello stesso. Una vita dentro un’epoca, un’epoca attraverso una vita. (Ma andrà naturalmente visto interamente per coglierne il valore).

Settimo film: Bigger than Life, ancora Nicholas Ray, “uno dei mélo più isterici a un passo dall’horror, con inquietanti echi attuali” viene scritto. Peccato che questa famiglia perfetta, questa quotidianità borghese felice sia sconvolta e smascherata da una contingenza in fondo banale: l’abuso da parte del protagonista, un grande James Mason, di un farmaco: il cortisone. La crisi non diventa metafora di una malattia sociale più grande, soltanto di una psicologia individuale.

Intervallo: sento da lontano delle voci collettive, intravedo lungo via Po un corteo di studenti, numeroso, impugno la macchina fotografica, mi infilo, penso, scatto…

get-low-duvall-murray-spacek-13Ottavo film: grandi applausi per questo Get Low di Aaron Schneider molto abile e originale nel calibrare gradualmente le aspettative di uno spettatore medio: il vecchio selvaggio, energico, solitario, violento da diventare leggendario, che propone un “funeral party” prima di morire, collegandolo ad una lotteria, che avrà come posta i suoi vasti e incontaminati possedimenti; ed una tragedia che diventa spettacolo oratorio… Grandi attori Robert Duvall e Bill Murray , non a caso premiati come migliori attori maschili dal Festival.

Nono film: persisto con Oshima con “Diario di un ladro di Shinjuku” ed ancora una volta non capisco. Sono arrivato a Torino con l’idea: “vedrò molto Oshima”, invece sono respinto. Eppure c’è materia viva: il movimento studentesco, i problemi del sesso, i libri, il teatro situazione, Genet, la violenza arbitraria, il cinema.

Decima visione: due corti “John Wayne Hated Horses” di Andrew Betzer, noia e militarismo senza parole; e “Dial for Mother”: il corpo e il volto di Gena Rowlands, al centro di scene tratte da Cassavetes, mi fanno pensare a come sia possibile per molti oggi realizzare schegge di realtà con qualche senso.

Intermezzo: Gianni Amelio presenta “La bocca del lupo”. Ne parla con passione, lui stesso avrebbe voluto, confessa, fare un film del genere. Pietro Marcello, il giovane regista, ha il fisico dell’attore e, nell’incontro successivo alla proiezione, tra le domande un pubblico competente e caloroso, racconta dei due insoliti e straordinari protagonisti.

Undicesimo film: “La bocca del lupo”. Rimando alla recensione di Maddalena Ferrari, presente nel sito, che ne sa cogliere e raccontare linguaggio e poetica.

Dodicesimo film: You won’t miss me della giovane regista americana Ry Russo-Young. Sono preso da subito sia dal personaggio femminile, interpretato magnificamente da Stella Schnabel, anche co-sceneggiatrice, vibratile, pulsante, contraddittorio, provocatorio che forza continuamente se stesso e le situazioni, sia da un linguaggio metropolitano, musica-colori-montaggio travolgenti. La regia-sceneggiatura padroneggia una materia che potrebbe diventare facilmente “giovanilistica-spettacolare”.

gohatto1Tredicesimo film: Gohatto di Oshima, il film più “denso” da me visto nel festival. Un grande film di amore e violenza, complesso e ambiguo, teatrale e cinematografico, interpretato e realizzato magistralmente, che si scolpisce nell’immaginario.

Quattordicesimo film: La bella gente di Ivano De Matteo ha il merito di rappresentare quella vastissima psicologia di sinistra “disponibile solo fino al momento in cui non entrano in gioco i propri interessi”, raccontando una storia senza apparenti drammi, più acida in quanto più implicita, con un bel ritratto di giovanissima ucraina.

Quindicesimo film: una chicca raccolta in quattro corti, pochissimo visti, di quattro famosi registi della nouvelle vague. Charlotte et son Steak un Rohmer tra neve bianca e dialoghi ironici-freddi, molto godardiano. Les Mistons, il primo Truffaut già Truffaut, narrativo e radioso, cinefilo e nostalgico. Le coup du Berger di Rivette: storia, personaggi, interpretazioni, regia pienamente maturi. Nella sua misura: perfetto. Charlotte et son Jules di Godard: un Belmondo che sproloquia continuamente con gag finale. Diverte, ma il gioco è troppo scoperto per sorprendere o far pensare.

Intervallo: la sera tardi l’appuntamento è nel ristorante-pizzeria nell’atmosfera calda e piacevole del mangiare quando si ha fame, con due camerieri da tempo trapiantati a Torino, che tra un piatto e una birra, teatralizzano, divertendosi con noi.

Sedicesimo film: Born to be bad di Nicholas Ray. Lei (Joan Fontaine) è bionda e candida, in realtà perfida, manovra uomini e situazioni diabolicamente. Melodramma psicologico, perfetto a suo modo, datato.

Diciassettesimo film: Bomber di Paul Cotter. Un viaggio di espiazione di una coppia anziana con un figlio trentenne, che è costretto di malavoglia ad accompagnarli… Divertente con una sua originale saggezza.

Diciottesimo film: “Welcome” di Philippe Lioret. L’inizio ha un taglio documentaristico di grande efficacia. Sulla storia tra il giovane curdo e l’istruttore di nuoto, la Manica e la fidanzatina a Londra torneremo.

Conclusioni aperte: è uno di quei festival troppo vasto di proposte per non essere che “semplicemente consumato”. Una sorta, cioè, di fiera cinematografica di buona qualità, con notevoli offerte (le retrospettive sono sempre di grande livello), dove si viene piacevolmente sollecitati a speluzzicare ora di qui ora di là secondo immaginari specifici o possibilità contingenti.


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