di Erika Ponti
Dopo la realizzazione del documentario sulla Shoah La strada di Levi Davide Ferrario torna, più o meno, alla fiction e lo fa con un film che si definisce già dal sottotitolo “commedia con musica”. Si tratta di Tutta colpa di Giuda, in uscita nelle sale il 10 aprile, interamente girato nella sezione VI della Casa circondariale di Torino.
Un film nel carcere e non sul carcere, come ci tiene a precisare il regista alla fine della proiezione di anteprima tenutasi ieri sera al cinema Alba Blob House di Bergamo, sottolineando come il film voglia soprattutto essere una riflessione sulla religione: “mi son sempre chiesto cosa sarebbe successo se Giuda, invece di cedere al famoso bacio, si fosse semplicemente rifiutato di collaborare all’autodistruzione di Gesù. Ci saremmo trovati di fronte al paradosso di un piano divino messo in mora dalla ribellione di un uomo. Se Gesù non fosse stato tradito e condannato, se non fosse morto e risorto – insomma, se non avesse potuto salvare il mondo, come credono i cristiani – che cosa sarebbe successo?”. Se esiste un luogo dove nessuno vorrebbe essere Giuda Iscariota quello è proprio il carcere, e da lì, da quest’interrogarsi, da ateo convinto, sulla fragilità dei presupposti alla base del mito cattolico nasce la trama del film: su richiesta del cappellano del carcere una giovane regista teatrale è chiamata a mettere in scena una Passione in cui nessuno dei detenuti vuole fare il ruolo di Giuda. Il risultato sarà una versione musicale fuori dagli schemi e dalla storia, dove Gesù non viene tradito e quindi non sottoposto a processo né crocefisso.
Aspetto interessante del film è sicuramente il lavoro con i veri detenuti, sfidati al paradosso di recitare interpretando se stessi, soprattutto nella misura in cui da tale premessa scaturiscono suggestioni e riflessioni relative all’istituzione carceraria e alla sua efficacia: lo stesso direttore del carcere, interpretato da Fabio Troiano e ispirato all’ex direttore di San Vittore, non crede troppo nella clausura penitenziaria, ne sottolinea al contrario debolezze e incoerenze (“così com’è la galera non serve a niente, è utile solo a chi sta fuori: serve a buttare la monnezza sotto il tappeto, ma a nessuno frega nulla del tappeto. Il problema non è la monnezza, è il tappeto.). Al contrario preti e suore appaiono, nella visione tutta personale di Ferrario, come i veri carcerieri, secondini che non danno spazio e possibilità di fuga, rappresentanti di una religione che imprigiona e condiziona più della vita carceraria – la messa in scena del carcere di Torino è infatti tutt’altro che soffocante, ricca com’è di spazi aperti, grandi finestre, giardini e terrazze, a sottolineare come non è lo spazio ristretto ad essere limitante, ma i limiti e le imposizioni di una cultura che sceglie di non interrogarsi e accettare per fede.
Argomenti per niente facili che il regista affronta attraverso l’intuitiva ed empatica regista interpretata da Kasia Smutniak, alter ego di Ferrario, capace di parole durissime e urgenti eppur allo stesso modo estremamente innocenti e rivelatorie. La forza del film sta sicuramente in questa leggerezza, nella capacità di trattare tematiche e di mostrare quotidiane tribolazioni attraverso un linguaggio spiritoso, sdoganando ovvii simbolismi e citazioni in modo certamente ritmato e genuino: si gioca, in questo, film costantemente sul labile equilibro tra documentario e fiction, tra il fortissimo realismo rappresentato delle figure dei detenuti al contraddittorio sapore da musical, forse mai nemmeno percorso fino in fondo. Effettivamente c’è un inizio marcatamente documentarista, e coincide con i provini fatti ai detenuti con una camerina digitale dalla regista, una modalità di racconto fatta di interviste-sguardo in camera per presto abbandonata dal regista, tanto da passare in secondo piano tanto da ritenerla, proprio per non avere avuto il coraggio di condurla a compimento, non necessaria all’economia della storia.
Altro elemento interessante del film, ed inevitabile pensando alle opere precedenti del regista, è sicuramente l’utilizzo della musica, una varietà di contributi e suggestioni che vanno dal rock Marlene Kuntz (il leader della band, Cristiano Godano, è uno dei protagonisti del film) alle simpatiche ballate di Cecco Signa, passando per il rumorismo e la fisarmonica. Un patchwork di stili che s’innestano sulle coreografie di Laura Mazza, giochi sperimentali di forme e geometrie che spingono al limite la corporeità dei detenuti, in modo quasi impacciato, quasi alla ricerca di un sorta di redenzione come se nei movimenti, discordanti e stonati, si potesse trovare, infine, la libertà. Di essere, di esprimere.
Alla fine del film rimangono le parole dell’universo di mondi possibili che si sono incontrati all’interno del carcere, molto più che le immagini. È un lavoro decisamente di pensiero, questo film, dove la messa in scena diventa quasi un gioco, tentativi sperimentali e divertenti che non reggono il confronto con la forza delle riflessioni e delle suggestioni suscitate. Ed è infatti interessante, come spesso succede in lavori di questo genere, ascoltare le parole degli attori e del regista a fine proiezione, sentire i pensieri prendere forma, diventare testimonianza di un vissuto in prima persona, espressione di un’idea e di una posizione ben precisa che la macchina da presa, con i suoi voli pindarici alla ricerca di una messa in scena rappresentativa, non ha reso con altrettanta forza.
Tutta colpa di Giuda
Regia: Davide Ferrario
Sceneggiatura: Davide Ferrario
Musiche: Marlene Kuntz, Cecco Signa, Fabio Barovero
Cast: Kasia Smutniak, Fabio Troiano, Gianluca Gobbi, Luciana Littizzetto, Cristiano Godano, Francesco Signa, Paolo Ciarchi, Linda Messerklinger, Angela Vuolo, Christian Konabitè, Valentina Taricco, Kaas, Ladislao Zanini, Dante Cecchin, Compagnia GAP, Marlene Kuntz. Con la partecipazione di detenuti e personale del carcere di Torino sezione VI, blocco A.
Durata: 102 minuti
Anno: 2009
roberto costa said,
Agosto 20, 2009 @ 09:33Si rivede la mano felice di Ferrario (“La strada di Levi” ci era parso piuttosto pretestuoso) in una leggera ironica commistione di documentario, musical e commedia (forse su quest’ultimo fronte qualche sbavatura…), con vene di anticlericalismo e sperimentalismo. Carcere fisico e carcere mentale, e l’eterna lotta dell’Uomo contro i loro simboli e soprattutto i loro assurdi paladini.