di Roberto Costa
L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia” – Circe
Il 27 agosto del 1950, sul comodino di una camera dell’Albergo Roma di Torino, poggiano i Dialoghi con Leucò, il colloquio-specchio tra l’uomo e il Mito, tra l’essere finito e la rappresentazione dell’eternità. Da pochi minuti il suo autore ha deciso di porre fine ad un altro colloquio, quello dell’uomo con il mondo, con la realtà quotidiana, ha deciso di fare ritorno nella sfera del Mito, di eternizzarsi, con un atto solitario e privato, chiuso ed insondabile.
Venticinque anni dopo, in una notte autunnale di molte miglia più in fondo nella geografia e nella storia del nostro (ex) paese, un altro uomo “sceglie” una fine eclatante, pubblica, aperta a mille ipotesi, scandalosa e infinite volte scandagliata.
Due morti diverse per due uomini diversi. Diversi soprattutto, Cesare Pavese e Pier Paolo Pasolini, dal cammino antropologico intrapreso dalla società nel periodo in cui il cieco caso della Storia ha collocato le loro esistenze. Lo scrittore piemontese, seppur in una dimensione più intima, meno politica, aveva percepito le irrimediabili e incoscienti perdite che l’uomo moderno andava subendo, e le aveva espresse nel dialettico ma drammatico contrasto città-campagna, civiltà contadina-civiltà industriale. Tutto ciò che poco più tardi Pasolini avrebbe sviscerato con ancora maggiore durezza e lucidità di analisi in tutta la sua poliedrica attività artistica e culturale.
Abbiamo visto – forse casualmente a distanza di pochi giorni – due spettacoli teatrali che (ri)avvicinano l’uomo e la sua arte alla classicità e nei quali il cinema respira silenzioso ma imprescindibile. Il primo è Il Vantone, realizzato dall’Associazione Teatrale Pistoese in collaborazione con Teatridithalia, per la regia di Roberto Valerio, anche ottimo interprete.
Pasolini ha sempre cercato di stabilire (o semplicemente di evidenziare) un nesso profondo tra la figura del sottoproletario postbellico e le ombre dell’eroe mitologico (in senso lato) che si allungano fino ai nostri tempi, riuscendo a rendere classici personaggi come Stracci, Accattone, Mamma Roma e collegandoli idealmente (a volte con accostamenti blasfemi) a contesti (solo apparentemente) non contemporanei come quelli del Vangelo secondo Matteo, di Edipo re, di Medea.
Aveva scritto Il Vantone nel 1963, ispirandosi al Miles gloriosus di Plauto, portando la commedia latina nelle borgate sottoproletarie di una Roma che sarebbe di lì a poco scomparsa, il Mito e la sacralità spazzati via dall’implacabile avanzare della Modernità. Una delle ultime possibilità di rispecchiamento dell’uomo con la sua proiezione mitica rimane il cinema (e in generale il sistema divistico che caratterizza il mondo dello spettacolo).
Il Vantone si diverte allora a giocare con un bel pezzo di storia dello spettacolo nostrano, dalla commedia dell’arte alla commedia italiana, passando per la rivista e il varietà, Scarpetta e De Filippo, Totò e Sofia Loren, Wanda Osiris e Paolo Poli, Franca Valeri e Gigi Proietti (al quale tra l’altro la gestualità, la mimica, la vocalità dello stesso Valerio esplicitamente s’ispirano, evocando naturalmente Ettore Petrolini). Un po’ come se Accattone, oggi, privato del suo habitat e del suo senso nella Storia, perduti per sempre i riferimenti culturali popolari e mai conquistatine altri nuovi, fosse obbligato per sopravvivere ad esercitare una camaleontica arte del trasformismo e dell’imitazione (in senso anche puramente teatrale).
Il risultato è uno spettacolo assai spassoso e intelligente, grazie ad una serie di situazioni esilaranti, sostanziate da un manipolo di bravi attori e da ben due strutture drammaturgiche (e filosofiche) di alto livello, firmate dal grande Pier Plauto.
Di classicità si è spesso nutrito anche Jean-Marie Straub, che (prima in coppia con la compagna Danièle Huillet) da anni traspone cinematograficamente testi di autori come Vittorini, Hölderlin, Kafka, Sofocle, Mallarmé, Böll, Engels, affrontando anche opere musicali come quelle di Schönberg. Con Pavese si era già confrontato in Quei loro incontri, Dalla Nube alla Resistenza e Il ginocchio di Artemide.
Proprio ripartendo da quest’ultimo dialogo, estratto dal mitologico cilindro di Leucò (nel libro si chiama La belva e mette uno di fronte all’altro Ermete ed Endimione, amante di Artemide) insieme a Le streghe (nel quale invece parlano Circe e Leucotea), Straub mette in scena con il Teatro di Buti uno spettacolo, parola che in questo caso circoscrive il suo intimo significato al concetto-azione di guardare il testo.
Il testo letterario infatti, con Straub, si presenta nudo e crudo di fronte al pubblico, sia esso teatrale o cinematografico. Nel primo caso attraverso l’immobilità del corpo dell’attore e la mancanza di profondità spaziale e vocale della scena. Immobilità che sul grande schermo si esprime attraverso le lunghe inquadrature fisse (l’eterno presente di dei e semidei dei dialoghi pavesiani), a contrasto con il ricorso esclusivo alla luce naturale, che ci consegna invece completamente al lento inesorabile scorrere del tempo nel mondo degli uomini.