di Andrea Marabotti
Ci sono tutta la vita e tutto il cinema dentro questo straordinario film di Darren Aronofsky (Leone d’oro al miglior film al Festival di Venezia, Golden Globe al miglior attore protagonista Mickey Rourke e alla migliore canzone “The wrestler” di Bruce Springsteen), tutta la realtà e la finzione, due mondi che si mischiano, anche se, come dice la spogliarellista Cassidy (Marisa Tomei), non dovrebbero mischiarsi. C’è il mondo reale e ciò che si vorrebbe che fosse, c’è un mondo reale ma finto che fa perdere di vista le cose importanti della vita, perdute irrimediabilmente, anche se illusoriamente recuperate.
In breve la trama, in fondo classica (alcune di queste cose sono successe anche a Rocky Balboa): il wrestler professionista, una star negli anni ottanta, Randy “The Ram” Robinson (Mickey Rourke) continua a combattere finché, al termine di un match particolarmente violento, ha un infarto e il medico gli proibisce di continuare a combattere e di assumere steroidi. Il rischio è la morte. A questo punto Ram cerca di recuperare il rapporto con la figlia (Evan Rachel Wood) che ha sempre trascurato, e inizia una relazione con la spogliarellista Cassidy. Trova anche un lavoro in un supermercato. Per poco tempo tutto sembra funzionare, ma alla fine tutto crolla di nuovo e Ram si riavvicina un’ultima volta, per un ultimo salto nel buio, a quella che, in un mondo di finzione, è la sua vera vita autentica, il wrestling.
Aronofsky (e Rourke con lui, perché è ovvio che in questo film è più che l’attore protagonista) costruisce intorno al personaggio titanico di Ram un’opera complessa (è semplice solo la trama) sulle dicotomie realtà/finzione, vita/spettacolo, autentico/inautentico, in varie forme:
Mickey Rourke: oltre che intorno alla sua enorme prova di attore, tutto ruota intorno alla sua persona. Il film si nutre anche della sua vita, delle sue scelte che lo portarono, dopo il successo degli anni ottanta, a farsi massacrare il volto sui ring di pugilato, e a interpretare film sbagliati fino a rinascere negli anni duemila (grazie soprattutto a Robert Rodriguez e a Sin City e C’era una volta in Messico). Nel suo sguardo sofferente, beffardo, disincantato, c’è un’adesione al personaggio che è anche comprensione totale e reciproca adesione del personaggio a lui. Anche la bellissima canzone dei titoli di coda è un regalo di Bruce Springsteen a entrambi, Mickey e il suo doppio/specchio Ram. Due persone che hanno raggiunto la grandezza e la loro vera vita autentica facendo spettacolo, al prezzo di mille sofferenze e sconfitte.
Il wrestling: è geniale la scelta di utilizzare lo sport più finto e costruito del mondo (ad esempio sarebbe stata banale la scelta della boxe, oltre che troppo aderente alla vita di Rourke: sarebbe stata una biografia!), per parlare di un personaggio che vive sofferenze reali, sia fisiche che esistenziali, e che però sa vivere autenticamente solo all’interno di quel mondo. Quest’ultimo aspetto viene anche accentuato da Aronofsky esibendo tutte le esagerazioni (concordate) del wrestling, come si vede perfettamente nell’ultimo violentissimo combattimento prima dall’infarto, raccontato con flashback spezzati via via che il malore aumenta, e ancora mostrando i vari wrestler che scherzano fra di loro prima dei match, mettendosi d’accordo per costruire messe in scena sempre più efferate. In fondo la vita della spogliarellista Cassidy (Marisa Tomei sempre più brava) non è molto lontana da quella di Ram: fanno spettacolo entrambi ed è ciò che riempie loro la vita, lui ha una figlia trascurata, lei un figlio, si trovano per un attimo, poi la solitudine a cui sono destinati, ma che in fondo scelgono, li risucchia nel suo buio.
La camera a mano: il regista sceglie di girare nel modo più vicino a quello del documentario, a volte sta addosso al personaggio come i Dardenne a Rosetta, proprio per parlarci del fatto che la realtà e la finzione a volte si scambiano, che ogni persona si sceglie la sua vita, che per gli altri può essere assurda, finta, ma che è autentica e l’unica possibile per chi la vive. Passa solo per un attimo l’illusione che mondi diversi, strade parallele possano incontrarsi.
La luce e il buio: dopo una vita passata sui ring, in un mondo esagerato e colorato, sotto i riflettori, l’uscita di scena di Ram avviene in un buio totale, in un attimo di sospensione in cui ci aspettiamo l’irreparabile, ma arriva nel buio la voce di Bruce Springsteen ad accoglierci e a farci capire definitivamente la grandezza di questo film. Nel finale il personaggio di Ram diventa davvero gigantesco e degno delle tragedie classiche. Ha perso irreparabilmente tutto: la figlia (si erano riconciliati, ma lui si ubriaca e dimentica un appuntamento, lei lo manda definitivamente al diavolo), il lavoro (ha lasciato il supermercato insultando tutti e sfasciando tutto), Cassidy (lo raggiunge in occasione del match per convincerlo a non combattere, ma se ne va e lo sguardo di Ram dal ring raggiunge solo un posto vuoto), e la solitudine che ha sempre accompagnato la sua vita (pur su un ring con centinaia di persone a inneggiare al suo nome) lo porta definitivamente verso l’ultimo salto nel buio, verso l’ultima scelta autentica.
Un film difficile da dimenticare, un personaggio già classico interpretato da un attore che speriamo d’ora in poi abbia la carriera che merita.
THE WRESTLER
Regia: Darren Aronofsky
Sceneggiatura: Robert D. Siegel
Cast: Mickey Rourke, Marisa Tomei, Evan Rachel Wood, Mark Margolis, Todd Barry, Wass Stevens, Judah Friedlander, Ernest Miller, Dylan Keith Summers, Tommy Farra, Mike Miller, Marcia Jean Kurtz, John D’Leo, Ajay Naidu, Gregg Bello.
USA, 2008, 109 minuti