di Riccardo Dalle Luche
I Coen tornano grandi 8 anni dopo “L’uomo che non c’era”, riproponendone i temi esistenziali, sia pure collocati in un’altra epoca (i tardi ’60 e non più ’50), in un’altra area (la provincia del Midwest e non più della California), affrontati dal lato religioso e non filosofico e all’interno di un contenitore “comedy” e non più “noir”. Ma che si tratti fondamentalmente dello stesso film, una profonda riflessione sul destino dell’uomo e sulla sua inconoscibilità e indeterminabilità non solo a priori, ma anche a posteriori, ce lo dicono sia vari aspetti formali, quali l’imprevedibilità ironica del plot e la sua irridente deriva, ma soprattutto il riferimento al “principio di indeterminazione di Heisenberg”, un dogma della meccanica quantistica che nel film precedente improntava il pensiero e l’azione dell’indimenticabile avvocato Freddy Riedenschneider, e che qui è invece direttamente oggetto di lezione, raddoppiato dall’altro celebre paradosso quantistico del gatto di Schrödinger, del protagonista di questo film, l’insegnante di fisica, precario, Larry Gopnik. In realtà c’è un terzo elemento, qui, il misterioso “Mentaculus”, il libro folle sulla teoria delle probabilità che il fratello un po’ matto e giocatore di Larry scrive, e che nei suoi ghiribizzi assomiglia in modo impressionante alle immense lavagne piene di formule che Larry riempie nelle sue perfette dimostrazioni logico matematiche: come dire, il passo tra certa scienza e la follia è veramente minimo, e comunque irrilevante quando la posta è la conoscenza del reale e la capacità di previsione.
Tutt’intorno a questo nucleo tematico c’è la maestria dei Coen-autori di puro cinema: la perfetta ricostruzione ambientale, la profonda descrizione, dall’interno, delle religiosità ebraica (con tanto di un prologo yiddisch), il trionfo strutturale del grottesco nel quotidiano, infine veri colpi di teatro quali le stridenti associazioni tra la colonna sonora (Jimi Hendrix) ed alcune delle numerose storie nelle storie dentro il film, oppure i due o tre sogni degni di Buñuel, che tormentano le notti del povero Larry. A quest’uomo più serio e perbene del barbiere di “L’uomo che non c’era”, anch’egli maciullato da una sceneggiatura implacabile, i Coen fanno capitare di tutto, ma quando il suo destino sembra segnato, tutto sembra rimettersi sulla giusta strada per lui e i suoi familiari; ma è solo un momento perché nubi (letteralmente) ben peggiori si profilano all’orizzonte.
L’uomo serio, l’ebreo Larry, è stato educato dal libro di Giobbe ad accettare senza protestare le prove durissime che gli riserva il destino, nonostante le percepisca come ingiuste, e senza neppure aspettarsi per questo una ricompensa: è forse questo il fil rouge dell’ebraismo (che ha trovato la prova più tragica nella Shoah), ma forse l’apologo che prelude al film ci mostra come le donne, sia pure ebree, siano un po’ meno remissive e rassegnate di quanto non siano i loro Menschen
“A serious man” è un film così ricco di dettagli di ogni genere da pretendere una revisione ed uno studio da molti punti di vista e si candida come modello di cinema che coniuga opera d’arte e riflessione filosofico-scientifica-religiosa senza perdere nulla della sua capacità di comunicare alle platee più vaste e di divertirle.