Pierre Clementi e Lou Castel sono stati immagine-simbolo dell’individuo non omologato, non integrato, in una fase storica di trasformazioni economiche e culturali, di inquietudini e insoddisfazioni, di contraddizioni e di profonda politicizzazione, che sfociano nella rivolta del ’68 e la accompagnano. Lo sono stati, soprattutto nel cinema italiano.
PierreClementi è un angelo-diavolo, con il bel volto dai lineamenti puri, eppure segnato, con lo sguardo duro, intenso e sfuggente, le labbra carnose, i neri capelli folti. Non ha radici, non provenienza sociale né geografica, è un alieno, misterioso e inquietante. Così appare in Bella di giorno (1967) di Bunuel, dove, amante ombroso di Séverine, si fa possedere da lei e, nella sua compattezza e impenetrabilità, si rivela fragile e vulnerabile. Pasolini, che lo utilizza in Porcile (1969), dice del suo personaggio che “E’ una specie di santo alla rovescia; le sue ultime parole: ‘Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, tremo di gioia’ sono simili alle parole di un martire…glorifica il suo peccato, mediante il quale ha potuto ribellarsi contro la società (essa stessa cannibalesca )”. Il poeta regista confessa di aver lasciato all’attore un margine completo di invenzione e aggiunge che Clementi. l’ha usato per estremizzare il personaggio, cupo e selvaggio corpo in movimento, irrazionale e afasico,fino alle parole pronunciate prima della morte.
Per Liliana Cavani, che lo vuole interprete de I cannibali (1969), lo straniero da lui interpretato “è l’-uomo-, antico e nuovo, vergine, che…non parla ma agisce…E’ un’idea. E’ l’uomo del futuro, il rivoluzionario di domani che viene da fuori o piuttosto che è fuori dalla situazione descritta. Non deve parlare, perché nella contestazione la parola è già l’inizio del compromesso”.
L’identificazione dell’interprete con il ruolo, nel senso che quest’ultimo si plasma sull’attore, ma in una concezione esistenziale , non divistica, è parte di un “cinema nuovo” di quegli anni e la ritroviamo in un altro attore-mito, Lou Castel, che, da artista impegnato e consapevole, dice che si sforzava di “essere di sinistra, di interpretare tensioni che c’erano in molti, tensioni evidentemente conflittuali”. Iconograficamente all’opposto di Clementi, Castel, algido biondo dagli occhi azzurri, è la ribellione che la sua generazione si porta dentro, una tensione repressa, ma continuamente viva, ribollente, pronta a esplodere. E’ Ale ne I pugni in tasca (1965) di Bellocchio, che lo scrittura grazie ad un contrattempo capitato durante il provino, in seguito al quale Castel scoppia a ridere di un riso irrefrenabile. E’ quella risata isterica, che si ripeterà in diverse scene del film, a convincere il regista. E non è un episodio insignificante, perché dice quanto un attore come Castel portasse se stesso nel personaggio; infatti Bellocchio confessa di aver adattato la figura di Ale inizialmente pensata alle caratteristiche dell’interprete, che ha un aspetto apparentemente mite, dolce, ma coltiva dentro di sé una rabbia esasperata; e l’epilessia di cui il personaggio soffre è l’equivalente di un disagio estremo, prima e al di là della politica, che si può solo sfogare e non incanalare in un percorso o progetto.
All’opposto, dichiara l’attore, si colloca la scelta di interpretare Francesco nel film della Cavani (1966): stavolta un personaggio positivo. Ma anche in questo caso la mansuetudine nasconde in sé una forte carica anticonformista, una convinta determinazione. E’ un Francesco “beat”, un “giovane poeta vagabondo, avventuroso, libero” (come afferma la regista).
da La linea dell’occhio 60
Nota: le citazioni di questo articolo sono tratte da:
“Le regole di un’illusione” di Pier Paolo Pasolini-ed. Fondo Pier Paolo Pasolini e
“L’avventurosa storia del cinema italiano” a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi-
ed. Feltrinelli