di Beniamino Biondi
Esterno-giorno, primo pomeriggio.
La stazione dei treni di Uppsala è un casamento attiguo ad uno slargo nitido e armonioso. Il freddo intirizzisce le membra e tuttavia spiove dolcemente. I dimoranti non ne sembrano turbati e procedono sui loro cicli nei pressi di un viottolo boscoso che rasenta il fiume: qui è una folla taciturna di studenti adagiati sull’erba e rivolti alla lettura di un qualche libro o solamente pensosi e folli o solamente soli. La stazione pare sgombra, sebbene l’ingannevole senso di vuoto sia l’esito del generale contegno di queste genti. Il treno per Stoccolma, ora accostato al marciapiede, imposta il suo tragitto lungo poderi nei quali prevalgono le sfumature della terra e del fogliame, e i passeggeri del compartimento si attardano scrivendo sui loro quaderni, nell’atmosfera claustrale che ciascuno ci avvolge. Ognuno tra loro calca la matita su una piccola agenda nera, gravemente, e noi chiacchieriamo a disagio.
Esterno-giorno, pomeriggio avanzato.
Giunti a Stoccolma ci concediamo una sosta. Non che il tempo ce lo consenta, ma sappiamo che la caffetteria della stazione serve un espresso davvero gustoso. Noi non siamo che avventori occasionali nel brulicare consueto di funzionari ed operai che sfuggono vicendevolmente al nostro sguardo indiscreto. La riservatezza, qui, è un culto laico ad esercizio collettivo: una circospezione, comunque, estranea alla misantropia. Ci dirigiamo al binario dal quale si attende che parta il treno per il molo. La corsa è celere, ed inoltre ci attardiamo con due campeggiatori che compiono il medesimo tragitto per l’arcipelago delle isole Gotland. Sopraggiunti al porto ci imbarchiamo, coi modi di una garbata processione, sulla nave che non più tardi delle 3 ore attraccherà al porto di Visby. Impieghiamo questo tempo per esplorare la prua ove un vento gelido ci intorpidisce il volto, e, quantunque i bimbi incedono a petto nudo, noi siamo costretti a scomparire dentro l’abitacolo.
Esterno-giorno, prima sera.
Il porto di Visby si affaccia ad una pianura livida e spoglia, e la cittadina si svolge in cima sulla collina. Oltrepassiamo una cantoniera di cespugli e pinastri ed incomincia l’ascesa al paese e verso la pensione nella quale dovremo pernottare. Visby è un luogo incantevole e di certo reca memoria delle asperità del freddo inverno e del conflitto epico tra l’uomo e il mare. Il paese, premoderno e appartato, si dilata per fitti percorsi entro sagrati rilucenti e vicoli di selce, ed è quasi deserto come il solenne duomo nel quale si celebra una messa con accompagnamento d’organo per una platea di sparsi fedeli. Il nostro alloggio è una casa privata adibita a pensione per i casuali gitanti: mobilio e finimenti legnacei, una cucina che diviene tiepido rifugio per una frugale cena. Visby compie il prodigio di abdicare alla sua propria presenza umana, la sera: trascorso il breve tempo del pasto, il paese diviene un limbo disabitato e davvero si finisce per incappare solamente nell’ombra fuggevole di noi vaganti. Dalle basse finestre adornate fiabescamente con giare di fiori e teli di lino filtra il fioco lume di un soggiorno od una camera da letto e non vi è che il mugugnare del vento e lo scampanio di una chiesa a valle. Lo scenario è spaventevole e seducente, inconsueto per l’usanza mediterranea che delega alla socialità diffusa lo svolgimento della propria personalità. Ma questo nostro lento cammino si conclude tacitamente quando alla sera succede la notte, così che sia propizio rincasare.
Esterno-giorno, mattino.
Dopo colazione, il sole ancora tiepido e chino, ci dirigiamo al capolinea dei bus cingendo le antiche mura medioevali e gli avanzi di un torrione merlato. La corriera ci conduce attraverso una campagna prospera mentre alcuni studenti chiacchierano attendendo di giungere a Farosund, una guglia di terra al limite estremo delle isole Gotland. A terra sostiamo presso un capanno di legno, dopo aver pranzato con un sandwich e una fetta di anguria. La cittadina , oramai come d’abitudine, risulta sgombra e silenziosa e potrebbe rammentare mimeticamente qualche sperduto paese americano del Nevada o del Maine. Poi, una lentissima chiatta accoglie con noi qualche autovettura e capitiamo a Faro, isola di un’isola, minuscolo lembo di terra ove dimora nel freddissimo inverno non oltre una dozzina di residenti e notoria per le rovine di alcuni abitati vichinghi e come rifugio e domicilio del cineasta Ingmar Bergman.
Esterno-giorno, tardo mattino.
Discesi a Faro siamo soli, contro il mare. Avanti a noi solo la strada, che per faticosi tornanti in ascesa porta al paese, e una piana di conifere e pascoli sciolti. Siamo a piedi e la fatica incombe tale da suscitare una grata benevolenza nel solo uomo che incrociamo, un pastore carico di fusti d’acqua che si reca in bicicletta al proprio alloggio. Cortesemente viene radunato all’aiuto il tassista di Faro col quale ci portiamo al villaggio: una chiesa, una bottega di alimentari e le poste. Non riusciamo ad escluderci al piglio insidioso del mare, al fragore assiduo del vento. Un uomo grasso e barbuto, al ruolo di guida pubblica per i viandanti, replica alla propria generica cordialità una stentorea resistenza circa il luogo nel quale si è isolato dal vivere il grande regista svedese. Ma l’incensamento è strumento assai forte contro il quale nulla si adduce, e il grazioso incanto di una tra le compagne di viaggio riesce ove altri ebbero a fallire. Prendiamo in affitto delle bici e pedaliamo, fradici e irrequieti, verso Hammars, regione boschifera sul mare e luogo ignoto. La strada si interrompe nei pressi di un mulino a vento, uno tra i tanti qui sparsi, e si incrociano due vie. Per una qualche ragione inconscia noi risolviamo di percorrere un sentiero sul bosco e tra gli alberi, occulto e disarmonico, estraneo ad ogni temperanza, dentro al quale rinvenire la dimora del travagliato cineasta. Un misero cancello in ferro, la dicitura proprietà privata, ecco.
Interno-giorno, primo pomeriggio.
Per una elementare deduzione logica, e ragionando per sottrazione, non avendo incrociato sul tragitto solo che questa cancellata, siamo persuasi che a pochi passi sopravviva Ingmar Bergman. Accediamo, e senza che nulla manifesti il nostro cospetto, al patio nel cui perimetro si porge una struttura angolata e disadorna in legno, torchiata contro il mare che s’intravede discosto. Una jeep sovietica, sporca e contusa, sosta sotto un pergolato, e accanto alla porta di casa è addossata una bicicletta da passeggio. Assumo il rischio di pigiare sul campanello, e un’ombra fuggevole ci scruta da una piccola finestra e dischiude la soglia, appresso, al nostro fine. Bergman chiede chi siamo, le nostre risposte deferenti e smarrite debbono suscitargli una qualche attrazione. Il regista è vestito dimessamente, indossa una vecchia camicia a quadri, un pantalone da operaio e delle orrende pantofole. E’ molto vecchio, pallidissimo, i bianchi capelli scompigliati sulla nuca, ma attraverso le sue pupille azzurre, seducenti e repentine, cela una grazia intellettuale effigiata al magnetismo. Ci raduna a sederci su alcune panche, e noi lo seguiamo. Conosce la Sicilia, Palermo, e alcuni remoti paesi d’Abruzzo. Sorride appena comprende che siamo qui per lui, e quasi se ne scusa, ma è lieto che ci siamo recati in Svezia e pernottando per lungo periodo ad Uppsala, sua città natale. Quasi non riesce a persuadersi che qualcuno abbia compiuto un così malagevole tragitto solamente per conoscerlo e parlargli, travalicando taluni impedimenti propri al rinvenimento della sua dimora. Pare che manco un’ombra abbia a scovarlo, qui, e la solitudine gli è consona, sebbene al nostro avvento lo sorprenda il sospetto di una puerile allegrezza. La conversazione si dilunga sugli studi e sulla conduzione del nostro impegno culturale, il tono è quieto e allusivo. Osserva le nostre compagne di viaggio in modo sensuale, ne è sedotto: io credo ponderi sui nostri volti per comprendere chi tra noi sia l’interprete e la comparsa. Per una circostanza paradossale ci si conduce a rispondere a molti dei suoi quesiti, ed è oltremodo curioso e partecipe delle nostre opinioni. Ci racconta di come ebbe a innamorarsi di questa piccola isola durante i sopralluoghi per Il posto delle fragole, ci soccorre a pronunziarne correttamente il nome svedese, riferisce sullo stato di cose per cui da parecchi mesi isolato in questa casa senza nemmeno giungere al villaggio e pressoché osando di compromettere la propria catafratta solitudine. Ogni mattina compie una passeggiata verso il mare e poi rincasa attendendo alla stesura di un diario che sarà la sua ultima opera, il suo testamento postumo. D’un tratto accade che la conversazione diviene grave, profonda: la voce del regista è lenta e spietata, gli occhi dispersi al confine fra terra e mare, il palmo delle mani premuto sui pantaloni. Del cinema non gli importa nulla. Riferisce la sua passione per i libri, l’avversione giovanile per Dostoevskij che soltanto da vecchio ha dissipato contenendone la voragine tragica, racconta di come il cinema non sia che un’arte minoritaria alla letteratura, del modo in cui ci si fiacca a comprendere il trauma dell’essere al mondo risolvendosi all’angoscia perturbata di ulteriori preghiere ed inevasi quesiti. Non che l’intellettuale Bergman decanti la propria vecchiaia, no di certo: non vi è lamento nelle sue parole né raziocinio, solamente la tragedia dell’esperienza. Tra le rughe di questo uomo si celano la rivolta e lo sdegno per un universo oscuro ed invaso ai propri fantasmi. Il commiato è dolente: una stretta di mano ai due uomini, un lunghissimo abbraccio alle due donne, e senza che giunga a trattenere un’intima commozione per il nostro colloquio. Ingmar Bergman è turbato, coinvolto. E l’uscio si accosta a ridosso dei nostri corpi.
Esterno-giorno, tardo pomeriggio.
Sul cammino per il traghetto discorriamo convulsamente, ma la chiacchiera talora diviene l’esordio di quel silenzio nel quale si consuma il dolore. Mi parrebbe di violare la solidale intimità di me, della mia compagna e dei miei due amici narrando quel che si discute e quel che si tace. I pini flabellano sul nostro capo, il freddo avanza. Nella schematica affabulazione di questo incontro, compiuta coi modi di un trattamento cinematografico, non stimo appropriato ricorrere ad una modesta dissolvenza. Bergman conclude il suo film “Persona”, uno dei suoi più ostici e seducenti, con l’immagine della pellicola che prende fuoco e si dissolve. Non rimane che un biancore assoluto. Anche qui, un bianchissimo silenzio. Isola di Faro, un agosto qualunque, tra i sussurri e le grida.
da La linea dell’occhio 60