“Cinema, letteratura e autobiografia” in “L’uomo che amava le donne” di François Truffaut

di Riccardo Dalle Luche

In film di autori importanti come Truffaut viene narrata una storia più o meno realistica e verosimile, ma soprattutto è l’autore che attraverso questa storia ci vuole parlare, ci vuole dire delle cose che noi dobbiamo capire dalla visione di ciò che lui ci propone.

In “L’uomo che amava le donne” il personaggio del protagonista, Bertrand Morane (Charles Donner), un cupo e serioso “dongiovanni compulsivo”, oltre a realizzare le fantasie del regista, fumare le sue Gaulois, perseguire come lui con una passione assoluta la ricerca del senso della vita, ne condivide alcuni fondamentali vissuti infantili.

Questo film, così dimesso e così realistico, è, nel suo complesso, molto poco verosimile, sembra semplicemente la storia di un tipo coatto, insomma di un malato. Tuttavia nel dispositivo di finzione qualche cosa ci avvince o ci respinge, in ogni caso si fa prendere in considerazione e non ci lascia indifferenti, ci spinge alla revisione del film alla ricerca della logica interna del protagonista attivando la nostra attenzione per cogliere l’essenziale della suapsicologia. E ad ogni revisione il film parla sempre di più alla nostra anima e al nostro cuore: a forza di guardare un sasso diventiamo un sasso, diceva Flaubert, a forza di guardare questo film diventiamo Bertrand Morane.

La storia di questo film è quella di un uomo, in gran parte una controfigura dello stesso Truffaut, che scrive un romanzo autobiografico per tentare di riunire e rendere coesi i pezzi di sé dispersi nelle sue innumerevoli relazioni: il titolo che sceglie per il libro, su suggerimento della redattrice editoriale, dà il titolo al film. Nel libro però non sono citati né gli antefatti della sua redazione, né, soprattutto, la relazione più importante di Bertrand, quell’amore che sarebbe potuto essere quello definitivo, quello per il personaggio di Vera che lui rincontra dopo aver dato alle stampe il manoscritto, cosa che la dice lunga sull’autenticità delle autobiografie in genere. La redattrice del libro gli dice che questo amore, il suo più importante, potrebbe essere il soggetto di un secondo libro che Bertrand però non ha alcuna intenzione di scrivere.

Questa mancata corrispondenza del film col romanzo, la cui stesura da un punto in avanti, fino quasi alla fine, coincide col film, non viene normalmente colta dallo spettatore alla prima visione e fa quindi parte dell’illusione cinematografica.
L’intera sceneggiatura del film è stata successivamente trasposta da Truffaut in un breve “cineromanzo”(1), sempre con lo stesso titolo, introdotto da una citazione di Bruno Bettelheim relativa ad un paziente che “non aveva mai avuto successo con sua madre”.

La struttura narrativa del film mette in rilievo un processo creativo molto chiaro: l’autore, per trattare un problema a lui evidentemente molto caro, inventa un personaggio che scrive un romanzo per risolvere il medesimo problema; tuttavia, come regista, ci dice che nel romanzo il suo personaggio crede di mettere tutto se stesso ma invece omette quanto c’è di più importante, nella fattispecie l’assoluta incapacità di mantenere un legame unico, l’incapacità di amare profondamente, che coincide con l’incapacità di sentirsi amato.

Infine dal film viene tratto un vero libro, che contiene effettivamente tutta la storia di Bertrand raccontata nel film, salvo il fatto che è narrato in terza persona per un motivo più che ovvio: Bertrand alla fine muore, muore per la sua passione, quella dell’inseguimento compulsivo dei suoi oggetti-sembianti d’amore, le donne, “presenze di un’assenza, assenze di un oggetto di desiderio reale e al tempo stesso negazioni dell’assenza”: feticci, insomma, di una perversione affettiva. La morte “logica” di Bertrand, consequenziale alla sua passione assoluta (viene investito mentre segue una donna e, all’ospedale, cade dalla barella per protendersi verso la trasparenza femminile di un’infermiera), consente di fare di lui il narratore fantasma di un film (come in molte altre pellicole, quali “Viale del tramonto “ di Billy Wilder) ma non di scrivere libri, perché uno non può scrivere se è morto.

Cinema e letteratura, si intersecano e si rispecchiano in tutti i film di Truffaut(2), qui in modo chiarissimo, si contengono, coappartengono all’immaginario dell’autore, creando una struttura di fiction nella quale s’insinuano numerosissime verità personali ed anche universali. I processi immaginativi, visivi e scritti, appaiono qui le due facce della stessa medaglia che si rovescia continuamente.
Per Italo Calvino (nella quarta della sue “Sixth Memos for the Next Millennium” Lezioni americane, quella dedicata alla “Visibilità” (3): il cinema nasce da un “cinema mentale” che è sempre esistito nella mente dell’uomo, ben prima dell’invenzione del cinema. Il “cinema mentale” si riversa nel testo scritto del soggetto e della sceneggiatura, poi viene ricostruito sul set per fissarsi definitivamente nelle immagini del film finito.

Questo processo, che dall’immagine mentale va alla parola e si ripropone nella forma di immagine-parola del film è, nel nostro film, implementato ulteriormente, riflettendo il desiderio di Truffaut di girare un film imperniato completamente sulle varie fasi di redazione e pubblicazione di un libro.

Anzi, il rapporto immagine/testo è qui ancora più complesso, in quanto uno dei ricordi fondamentali di Bertrand, riferito ai suoi vissuti infantili verso la madre, è proprio quello in cui lei, girando per la casa mezza nuda, evidentemente troppo presa dai propri personali bisogni sentimentali ed erotici, per non essere disturbata, per far sì che suo figlio quasi adolescente non sia per lei d’intralcio, che sia in effetti “inesistente”, gli consente unicamente di stare fermo e buono a leggere: un’imposizione che, stranamente, riesce ad instillare nella mente del piccolo Bertrand la passione per la lettura.

Ed è alla scrittura di un libro che Bertrand si rivolge da adulto, dopo un inatteso rifiuto da parte di una donna matura, che riattualizza quello della madre. L’episodio interrompe la coazione alla seduzione, sostenuta unicamente dal bisogno di sentirsi “esistente”, e mette in moto un processo di autocoscienza.

Al libro e non più alle donne affida ora il ruolo di oggetto sé/contenitore unificante dei suoi sé, finora dispersi nella illimitata sequenza di più o meno fugaci relazioni con le donne che costituisce la sua vita psicologica (Bertrand ha anche una seriosa identità di ruolo di ingegnere meccanico, ma questa viene totalmente dismessa alla fine dell’orario di lavoro). Poiché nella storia di Bertrand c’è molto dell’infanzia di Truffaut, figlio indesiderato di una ragazza madre risposata per dargli un nome, ma di fatto instabile e infedele (vedi anche i forti indizi autobiografici del capolavoro d’esordio “I quattrocento colpi”), possiamo dire che il cinema, fare cinema, scrivere di cinema, pensare a qual’è la funzione del cinema, è il contenitore mentale di Truffaut, ciò che, feticisticamente, esistendo, fa esistere lui stesso rispetto a tutte le minacce nientificanti dell’esistenza, la prima delle quali è, ovviamente, l’abbandono della madre, la sua assenza affettiva.

Avere relazioni sempre nuove è per Bertrand il corrispettivo dell’occuparsi compulsivamente di cinema, scrivendone e facendone, di Truffaut. I meccanismi profondi del feticismo sono quindi il vero tema del film, Truffaut ce lo mostra anche esplicitamente nel sogno in cui Bertrand si vede come un manichino oggetto di desiderio di una piccola folla di donne da lui irrimediabilmente separate dalla vetrina del negozio di biancheria intima della donna che l’ha rifiutato.

C’è poi la questione della noia: Bertrand cambia compulsivamente partner, così come del resto faceva sua madre che, come lui, complilava elenchi dettagliati dei suoi partners, non solo per evitare ogni dipendenza legata ad un legame stabile, ma anche per evitare la noia.
Dopo un po’ le donne lo annoiano: lo dice lui stesso per scusarsi di essere stato troppo con una che, per la sua impulsività e la ricerca di sensazioni forti, lo costringeva a situazioni estreme dove consumare i loro rapporti, e così gli evitava la noia. Ma questo cambiare compulsivo non è fosse esso stesso noioso? Ad una prima visione anche il film, proprio per la ripetizione continua delle avventure, risulta alquanto noioso. La noia è in effetti uno dei pochi argini del dongiovannismo, che Bertrand non ha per la sua capacità di vedere in ogni donna una variante a sé, un qualcosa di creaturale e di diverso rispetto alle altre sua compagne di genere.

Insomma, se per le dinamiche feticistiche una donna vale l’altra, la qualità delle relazioni che lui instaura con loro le rende assolutamente diverse e perfino imparagonabili.Così come ciascuno dei film di Truffaut ha una sua personalità e una sua fisionomia indimenticabile, così le donne viste e descritte da Bertrand sono ognuna un universo a sé: Bertrand umanizza i suoi feticci dando volta per volta l’illusione di realizzare con loro veri rapporti umani.

Questo film sommesso, dalla narrazione apparentemente convenzionale, per nulla affascinante ad una prima visione, il cui fondo melanconico è solo occasionalmente spezzato da qualche gag umoristica e ironica, é dunque un’opera estremamente complessa, oltre che per la struttura formale che abbiamo per sommi capi delineata, anche per la ricchezza delle osservazioni psicologiche, per la tipizzazione della varietà femminile delle molte partners di Bertarnd, e per molti altri particolari che non hanno perduto niente della loro validità dopo oltre trent’anni dall’uscita del film (1977).

L’unica cosa che veramente è cambiata da allora è che le donne, non portando quasi più le gonne, non offrirebbero oggi allo sguardo di Bertrand quelle gambe di cui lui dice che “come compassi misurano il mondo in tutti i sensi, donandogli il suo equilibrio e la sua armonia”, ma altri punti di repere per l’immaginario erotico ed i bisogni che su di esso si appoggiano.

1 Truffaut F.. L’uomo che amava le donne (1977), tr. It, Marsilio, Venezia, 1990
2 Amatulli M., Bucarelli A.: Truffaut uomo di lettere. Quattriventi, Urbino, 2004
3 Calvino I.: Lezioni americane. Garzanti, Milano, 1990.

da La linea dell’occhio n. 60

roberto costa said,

Luglio 18, 2009 @ 20:03

Le circostanze della morte di Bertrand Morane vengono espressamente riprese da Polanski in Luna di fiele, dove il protagonista Oscar finisce in ospedale in seguito a un incidente simile. Lui però, anziché spirare nell’estremo protendersi verso (contro?) il suo feticcio, viene da esso semplicemente “gambizzato”, così da non poter più sfuggire alla passione, ogni volta sempre più infernalmente alimentata. Morirà più tardi, e solamente grazie ad una violenta e volontaria forzatura delle trame infinite del ‘fatale sentimento’ (solo così è possibile uscirne e Mathilde Bauchard, La signora della porta accanto, lo sa bene), nonché della trama “non finita” del romanzo di Bruckner da cui il film è tratto. Da una parte dunque un’assenza incolmabile che volendo fuggire il senso della morte si fa compulsiva e noiosa collezione (ma Truffaut è bravo assai nel non rendere noioso il film); dall’altra una presenza ineludibile che ti perseguita sempre e ovunque, bandendo noia, ripetitività, serialità e, giocando ogni istante con la morte e i suoi sensi, tutto ciò che di lei si annida nelle nostre vite quotidiane.

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