di Nino Muzzi
A che serve un film politico? A che serve un film a sfondo sociale? A che serve l’arte civile?
La risposta è semplice: a smascherare un mito.
Anche il capostipite di questo tipo di film, Quarto potere, in fondo non è altro che il tentativo di sdipanare il mito per ridurlo a semplice …nulla.
Invece, ahimè, Sorrentino ( da me tanto stimato ) questa volta non ha capito il suo film –succede- e ha fatto paradossalmente un’operazione inversa, si è addipanato non sull’uomo, Giulio Andreotti, ma sulla sua icona: la silouette del diavolo (mille volte ripetuta nelle riprese di spalle).
Mai film è stato così esplicito: nomi, cognomi e indirizzi fioccano ad ogni istante e appaiono addirittura scritti in rosso sullo schermo, come per dire: -Attento, non ti sbagliare, questo è Cirino Pomicino, questo è Sbardella …- e via dicendo, eppure questa esplicitezza (se così si può dire) non colpisce nessuno. Quelle cronache turbolente che si agitano intorno al protagonista non servono ad altro se non a distaccarlo nettamente dalla turba dei faccendieri che lo circonda e a riconfermarlo intoccabile, immortale, inafferrabile.
C’è solo un timido giudizio della moglie, per altro non sviluppato a dovere, che tenta con le armi femminili del:”Ti conosco bene io…” d’invertire una vulgata che vuole Andreotti colto e geniale, piuttosto che informato e accorto. Ma questa battuta della moglie non riesce a smascherare il mito del marito e muore fra le quattro mura domestiche.
Le accuse di Scalfari, poi, snocciolate secondo uno stile denunciatorio da anni settanta, sul tema del “caso” non approfondiscono niente e non scalfiscono l’icona, anche perchè, a ben vedere, poggiano su una base euristica linguisticamente ambigua: “E’ un caso che…?” per arrivare ad una risposta unica per tutti gli esempi:’No, non è un caso!”. Allora, si dice lo spettatore, ha ragione il divo Giulio quando dice:”Io non credo al caso, ma alla volontà di Dio” ed ha ragione fino in fondo quando la sua intera vicenda politica si legge come volontà divina e si spiega come volontà divina: un male che deve perpetuarsi ad evitare un male peggiore, quindi un male benefico.
Un libro, per esempio, che riveli per quale ragione i generali muoiano tutti nel loro letto e non sul campo di battaglia deve approfondire i motivi “laici”, se non scientifici, di questo fenomeno. Il film parla dall’inizio alla fine di un Andreotti che passa illeso attraverso mucchi di cadaveri, come la mitica salamandra attraverso le fiamme, ma non ne spiega i motivi “laicamente” condivisibili.
La Mafia? Il Vaticano? La CIA? Ma allora si approfondisca il suo rapporto con questi superpoteri oppure si approfondisca quel meccanismo di autodiffesa di cui nel film c’è appena un accenno: l’archivio.
L’archivio tenuto da Andreotti fa tremare tutti, come dice lui stesso, ma in realtà Andreotti tiene un diario in cui oggettiva, giorno dopo giorno, le sue malefatte , ed è il diario il suo vero confessore, non quello sparuto pretonzolo che appare un paio di volte nel confessionale. L’archivio semmai spiega l’ascesa di un personaggio come Putin, che proviene dalla polizia segreta e sa vita morte e miracoli di tutti i politici della vecchia Unione Sovietica e li tiene in scacco.
Il Divo tenta di riagganciarsi al filone del film politico italiano, Il cittadino al di sopra di ogni sospetto, Todo modo, Cadaveri eccellenti, L’affare Mattei, Le mani sulla città, Salvatore Giuliano, e via dicendo, ma proprio quel filone tradisce platealmente, in quanto l’uomo di potere non viene tradotto in altri termini, ma resta uomo di potere, cento volte ripetuto e cento volte scritto con la lettera maiuscola.
E’ vero che alla fine del film l’icona parlante di Andreotti pronuncia la parola “niente”, ma questa soluzione filmica appare quanto mai incollata come un’etichetta. L’Ivan il Terribile di Eisenstein si dibatte fra l’uomo e la sua icona; le incertezze della coscienza individuale che fanno abbassare la testa dello zar fino a terra sui cadaveri dei boiari giustiziati e la consapevolezza del suo ruolo storico che, d’un tratto, gliela fa sollevare risolutamente per pronunciare le fatidiche parole: Non basta!
Il Divo di Sorrentino invece resta icona anche quando mangia con la moglie gli spaghetti all’amatriciana.
IL DIVO
Paese: Italia/Francia
Anno: 2008
Durata: 110 min
Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino
Produttore: Francesca Cima, Fabio Conversi, Maurizio Coppolecchia, Nicola Giuliano, Andrea Occhipinti
Casa di produzione: Indigo Film, Lucky Red, Parco Film, Babe Film (Francia)
Distribuzione (Italia): Lucky Red
Interpreti e personaggi
* Toni Servillo: Giulio Andreotti
* Anna Bonaiuto: Livia Danese
* Giulio Bosetti: Eugenio Scalfari
* Flavio Bucci: Franco Evangelisti
* Carlo Buccirosso: Paolo Cirino Pomicino
* Paolo Graziosi: Aldo Moro
* Giorgio Colangeli: Salvo Lima
* Alberto Cracco: Don Mario
* Lorenzo Gioielli: Carmine Pecorelli
* Gianfelice Imparato: Vincenzo Scotti
* Massimo Popolizio: Vittorio Sbardella
* Aldo Ralli: Giuseppe Ciarrapico
* Giovanni Vettorazzo: Magistrato Scarpinato
* Piera Degli Esposti: Signora Enea
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Cristiano Travaglioli
Musiche: Teho Teardo
Scenografia: Lino Fiorito
Costumi: Daniela Ciancio
Trucco: Vittorio Sodano
Premi:
* Festival di Cannes 2008: Premio della giuria
* European Film Awards 2008: European Film Awards per il miglior attore (Toni Servillo)
roberto costa said,
Marzo 6, 2009 @ 12:42Non a decostruire un mito tende il film di Sorrentino, ma piuttosto ad iconizzare un mostro, e secondo me a ragione, avendo l’Innominabile (e con lui la società e la politica e la recente storia italiane) non solo le sembianze, ma anche la sostanza più profonda, di un orribile tartufo, di un mostro quindi, ma non di quelli con tre teste o dieci code che popolano l’epoca dei Sogni, ma di quelli ben più temibili e orribili che infestano il pianeta nella realtà.
Al regista non interessa ritrarre il lato umano del mostro, semplicemente perché questo mostro è un blocco chiuso senza vie d’uscita, i lati umani sono soltanto riflessi o giochi di specchi, illusioni, fumo negli occhi degli italiani.
Resta il fatto che quello di Sorrentino non è un film completamente riuscito, perché la rappresentazione del mostruoso prende la forma di un lungo estenuante ballo di maschere (buona intuizione) che sconfina però nel grottesco, con il solito sterile gioco dell’imitazione, della (vero)somiglianza, e inoltre della nominazione di persone e fatti realmente accaduti. Non a caso il film si chiama “il divo”, cioè “il dio”, “attributo” che poco ha a che fare con il mito e con le sue derivazioni ed astrazioni.