“Antonioni: dietro un’immagine un’altra e poi un’altra ancora” di Marianna De Palma

Esiste in tutti i film di Michelangelo Antonioni la sospensione, nel significato più ampio che la parola può assumere nel cinema – ma non solo.
Sospensione di giudizio, sospensione di spazio e di tempo, sospensione dal dover capire a tutti i costi un film, il suo significato, i suoi messaggi nascosti.
Sospensione, ovvero pausa, dalle storie stesse che i film dell’autore raccontano; attimi o lunghi momenti che si rivelano come aperture per la mente, per l’anima.
Sospensione-pausa, resa possibile dal marchio particolare che il segno filmico per eccellenza, l’immagine, assume nelle pellicole del regista ferrarese. Caratteristica o essenza che altra non può essere se non l’evidente  Poesia delle inquadrature e sequenze dei suoi film.

Frammenti di poesia – così come mi vengono in mente -: il volto in bianco-nero di Monica Vitti sullo sfondo di cielo, mare e pietre in L’avventura; la partita a tennis con pallina immaginaria, nel finale di Blowup; il fotografo protagonista dello stesso film, che recupera la “pallina” fuori dal campo, e la rilancia; i corpi nudi sulle rocce in Zabriskie Point; la maestra Carmen-Ines Sastre in bicicletta, nella Ferrara di Al di là delle nuvole; i suoi incontri sotto il portico e sul letto con Silvano-Kim Rossi Stuart; Sophie Marceau sul molo di Portofino, nello stesso film; Maria Schneider in Professione Reporter mentre, sulla panchina, legge, con i capelli che le coprono il viso, e poi riversa la testa indietro, sotto il sole; e ancora in questa pellicola, Jack Nicholson con le braccia aperte, che si staglia sul blu del mare, sporgendosi dalla bidonvia sorvolante il porto di Barcellona – come un volo poetico senza tempo. Sono moltissime le immagini cariche di poesia, che dei film di Antonioni mi tornano alla mente.

E’ l’insistenza sull’oggetto dell’inquadratura, ripreso spesso da angolature diverse e consecutive o attraverso lenti, lentissimi movimenti di macchina – carrellate, panoramiche…-, a concedere pause, che divengono occasioni vitali per sguardi attenti, che divengono aperture contemplative, immaginative. Contemplazione dell’immagine e di tutto ciò che da essa può scaturire, al di là del significato anche narrativo che la stessa assume nel film. Immagini che creano percorsi mentali, estetici, poetici.

Penso a Blowup, dove l’immagine è due (o mille) volte protagonista: come segno primo della lingua del cinema (del poter fare cinema) e protagonista dell’occasione stessa raccontata nel film, la storia di un fotografo che, attraverso gli indizzi rilevatisi nelle sue fotografie sviluppate, si scopre  testimone di un omicidio. Attorno alla trama, si moltiplicano gli scatti sulla realtà, le immagini poetiche, e il protagonista, in bilico tra l’estetismo (del proprio mestiere e della propria essenza) e il dato crudo e reale – quale un corpo morto -, si alterna e altalena tra questi due mondi. Fino alla fine; e ancora alla fine, quando, gironzolando nel parco, luogo del delitto, con la propria macchina fotografica cacciatrice di immagini reali, egli viene coinvolto, da una compagnia di pseudo-attori, in una partita a tennis con pallina invisibile, che lui stesso prende nelle proprie mani.

Ma noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’é un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima, fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa che nessuno vedrà mai.” (Michelangelo Antonioni)

da “La linea dell’occhio” n. 59


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