“Se ho incontrato un Socrate quello fu Pier Paolo…”. Intervista con Luigi Faccini

di Gianni Quilici

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A Luigi Faccini,  romanziere, ricercatore storico, critico e co-fondatore di Cinema&Film, personalità tra le più vitali e versatili del panorama culturale italiano, ho posto due domande su Pier Paolo Pasolini…

Tu hai conosciuto Pasolini e lo hai frequentato, attraverso una delle riviste cinematografiche più importanti e, se si può dire, mitiche. Ci puoi raccontare l’essenziale di questo rapporto?

L’immagine più ricorrente di Pier Paolo Pasolini, ormai un’icona di fronte alla quale ci si genuflette in modo sospetto, è quella di un uomo in primo piano, dallo sguardo fermo, scuro e penetrante, dentro un viso scarnificato, “maschile”, un pugno chiuso tra il mento e la mascella sinistra. Un’ immagine che utilizzai nel mio film Notte di stelle, per tappezzare le pareti di casa del protagonista, l’operatore sociale-filmaker che si occupava di “ragazzi di strada”. Le parole del poemetto Io so … affiancavano le gigantografie. Ma quell’immagine non passò indenne per le mie mani. La sfregiai, tumefacendola, con un pennarello rosso, in ricordo dell’assassinio di cui Pier Paolo era stato vittima. Ma era davvero Pasolini quella figura inquietante? Anche quell’immagine “ferita” corrispondeva alla sostanza della persona nel modo approssimativo in cui tutte le immagini corrispondono alla persona ritratta. Nel mio film gli resi omaggio anche nel finale, quando Titti, il “ragazzo di strada”, muralista talentuoso, muore sotto le ruote di un camion, come in Accattone. La variante facciniana della conclusione stava nella telecamera impugnata dall’operatore sociale-filmaker, al quale il ragazzo morente diceva: «A Lu’, ripijeme che sto a morì…»

Pier Paolo Pasolini incominciò presto a diventare “immagine”. Fu quando il “mercato”, già ai tempi di Accattone, s’impossessò di lui e ne fece una “griffe” scandalosa, provocatoria, capace di legare a sé i cattolici e i marxisti del dialogo. Da allora la sua immagine prese a mascherare le sofferenze altrimenti rivelate dalla sua poesia, costretto com’era a nascondere la sua fragilità umana e l’urgenza dei suoi desideri carnali. Pier Paolo era comunque un uomo che non si apriva facilmente, a causa del conflitto quotidiano cui la società ostile, drammaticamente vittoriosa, lo costringeva. Pasolini replicava agli insulti con la mansuetudine dei giusti. Generoso com’era, incapace di resistere alle infinite richieste di aiuto e di collaborazione che gli piovevano addosso da ogni angolo d’Italia, Pier Paolo era un uomo in difesa aggressiva. L’idea di società di cui era portatore cozzava contro il classismo corrente, ma anche contro l’interclassimo di marca cattolica e democristiana. Ebbe con sé solo la sinistra. Non tutta né tanta, però. Diciamo quella non turbata dalla sua omosessualità…

Ho conosciuto abbastanza presto Pier Paolo, ai tempi de La comare secca, quando noi, critici sciabolanti, accaniti contro l’ufficialità e l’accademia, coetanei del precoce Bernardo Bertolucci, ronzavamo attorno alla regia che il “vecchio” aveva ceduto al “giovane”, dopo Accattone. Pier Paolo era piccolo di statura, ma robusto. Vestito in pelle, occhiali scuri, divenne un lampo machissimo, dal retrogusto proibito, nella nostra vita. Ambivamo alla sua attenzione. Ci tenne sempre a distanza. Glielo rimproverai, durante la seduta di revisione di una sua intervista che doveva aprire il primo numero di Cinema&Film . «Anche Laura (Era la Betti, ndr), me lo dice. Ma io devo difendermi…». Con l’improntitudine dei giovani ero stato estremamente duro con lui. Che avessi dovuto aspettare, mentre un corale di Bach accompagnava il ticchettio della sua portatile, mi aveva indispettito. Non per la musica né per l’attesa, del tutto inevitabile, ma per l’aumento del volume di quella non appena gli fu annunciata la mia presenza – dalla nipote furlana , quella che nel finale di Comizi d’amore è la sposa vestita di bianco. Cos’era quella recita, mi chiesi. E se, invece, fosse stato un modo per includermi nel suo lavoro? Questa domanda allora non me la posi. Così gli detti del “vate”, che tiene in sospeso i suoi discepoli. Gli dissi che era una condizione inaccettabile. Pier Paolo non si adombrò, né sorrise. Era abituato a ben altre aggressioni. Ma dovette memorizzare la mia stizza, perché non mi fece spazio come suo assistente. Tuttavia propiziò il mio incontro con Paolo Volponi, del quale volevo filmare il romanzo La macchina mondiale – e con il quale siamo rimasti amici fino alla sua morte. Di fatto Pier Paolo sentiva la pressione del mio sviscerare i suoi film, che, insieme a quelli di Godard, Bresson e Bergman, prendevo a pretesto per impadronirmi della “macchina cinema”. Negandomi il set de La Terra vista dalla Luna disse: «Sul set non si parla di cinema, si lavora…». Temeva che la caccia al tesoro del giovane apprendista si trasformasse in persecuzione. Non smisi di volergli bene, ma con tutta la severità che metto nel trasporto verso la persona oggetto della mia attenzione. Fu per questo che, dopo Uccellacci e uccellini , i suoi film presero a piacermi meno, fino al disastro, quale io lo considero, della “trilogia della vita”. Fu Salò a riconciliarmi col suo cinema. Così tragicamente autolesivo, testamentario e profetico, come fu quel suo ultimo film. Furono quei corpi violati a venirmi in mente il 2 novembre, quando la tv dette notizia della sua morte. Credo fosse una domenica. Ero in accappatoio, a casa mia, non a Cinecittà dove stavo montando Garofano rosso. Sedetti e rimasi immobile, per ore, accartocciato ad un dolore che non trovò sfogo. Vennero, come ondate, i nostri incontri. Non suscitavano rimpianto. Ma non erano perduti. Erano il futuro e il vuoto a spaventarmi. Per questo mi ghiacciai fino a sera, senza muovermi. E Pier Paolo tornava, esortandomi sempre «ad essere europeo», invece di perdermi nelle beghe di redazione di Cinema&Film, stupito dell’elasticità del suo corpo, quando, scavalcando il muro di cinta del Centro Sperimentale, andammo a portare solidarietà agli allievi che l’avevano occupato. Ed eccolo là, in campo, palla al piede, correre verso la linea di fondo, dribblare e crossare al centro per un centravanti che non fece gol, ma lui, Pier Paolo, ancora sulla palla, sgomitando, fino a puntare a rete. Ma come avrebbe fatto il Pelosi, da solo! Soffriva di ulcera, Pier Paolo. Ma per atterrarlo ci volevano tre uomini…

Non ho pianto per la sua morte, ma la mia vita si oscurò. E’ da allora che sono diventato più “cattivo”, e che il cinema di genere smise di essere una tentazione. Agli inizi del mio cammino avevo perfin sceneggiato una godereccia versione de La Nanna di Aretino. E addirittura un western, ma di comunardi scampati alle fucilazioni parigine. Fu da allora che cominciai a lavorare nelle periferie e nelle marginalità. Vissi come uno smacco ulteriore che Paolo Volponi non volesse prendere il posto e la funzione che Pier Paolo aveva occupato nella cultura italiana. Volponi interiorizzava la realtà circostante e cercava i linguaggi per esprimere le contraddizioni che gliene derivavano. Non amava il sacrificio pubblico di sé, come Pier Paolo…

Dire che Pasolini fu molto importante nella mia formazione è dire poco. Fui “toccato” dalle scintille della sua intelligenza, liberato e spinto verso la strada che ho potuto percorrere e che percorro. Se ho incontrato un Socrate, quello fu proprio lui, Pier Paolo…

L’opera di Pasolini è gigantesca, per la mole, per la pluralità di interessi e linguaggi, richiede del tempo per essere davvero visionata, letta e penetrata. Che cosa di essa, i film, ma eventualmente anche l’opera letteraria, e quella del polemista, è ancora, secondo te, viva e alta?

Non mi piacciono più le sue poesie. Troppo intrise di sociologia. Troppo esplicative, didascaliche. Mi incuriosirebbe rileggere i primi due romanzi: Una vita violenta e Ragazzi di vita . Penso che più di qualche sorpresa possano ancora riservarla. Il giornalista dei pezzi corsari, l’analista della degenerazione omologatrice, quel Pasolini lì è ancora fonte inesauribile, termine di confronto prezioso. Poi c’è un “mio” Pasolini, cui tengo particolarmente, quello dei “piccoli film” che servivano a preparare i lungometraggi destinati al grande circuito cinematografico: Sopralluoghi per un film in Palestina , Appunti per un film sull’India , per esempio. Io li trovo di una sintesi fulminante, carichi della freschezza iniziatica che solo i poeti con la macchina da presa sanno far scaturire dalla propria relazione con le cose…

da La linea dell’occhio 53

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