di Gianni Quilici
Vedendo “Le tre scimmie” ho pensato dapprima a Anghelopulos, poi a Bergman, infine a Bresson. Le ragioni sono quasi scontate, ma partirò da quelle.
Anghelopulos per l’inquadratura fissa che pare a volte eccessiva, ma è spesso una soggettiva che si carica di un sentimento forte, sospeso, inesprimibile.
Bergman per i primissimi piani e contropiani, che rendono in modo scultoreo dolore, contrasto, condizione di inferiorità, desiderio.
Bresson per l’importanza dei suoni che diventano colonna sonora espressiva del film: la porta che cigola, i cani che abbaiano, il cellulare che canta, il treno che passa, i grilli…
La grandezza di Ceylan è che questa materia la fonde in una storia personale, che per un attimo diventa “gialla” con la maestria di chi ha la forza intellettuale (la scrittura), evitando una miriade di trabocchetti possibili, tagliando passaggi melodrammatici, lasciando spazio allo spettatore.
Tutti i personaggi (marito-moglie-figlio e l’altro, l’uomo simbolo del potere) hanno una loro storia: caratterizzazione-articolazione-sviluppo; ed in più sospensione, cioè mistero. La sospensione è forse ciò che determina quei giudizi superficiali di “lentezza” di “noia”. In realtà sono attimi di riflessione, in cui maturano decisioni o vivono incertezze. E’ ciò che si potrebbe chiamare “la geografia psichica del volto”.
Prendiamo la donna. La vediamo all’inizio: affaticata e rassegnata da un tran tran quotidiano faticoso, senza orizzonti e desideri; poi l’incontro con l’uomo decaduto, ma sempre simbolo di potere: condizione di inferiorità e estremo disagio, l’abboccamento da parte di lui e l’istintiva ritrosia, la civetteria ed infine l’infatuazione senza dignità, masochistica. Ciò viene rappresentato in incontri, alluso nei rapporti tra lei con se stessa (ha appena lasciato l’uomo che ha fatto capire ogni disponibilità, si toglie le scarpe ripensandoci e all’improvviso, sotto gli occhi del figlio non visto, ha un sorriso goloso) oppure viene percepito fuoricampo quando il figlio ritorna precipitosamente in casa e la sente e la intravede nel letto con l’amante.
Tra questi personaggi c’è un rapporto complesso, ma irrisolto. Nessuno riesce a capire chi è, che cosa vuole e chi ha davanti. Ma tutti -e qui risiede la grandezza sottovalutata da molta critica- sono belli, luminosi. Perchè hanno un’anima. L’anima è data dalla solitudine in cui i protagonisti con poca autonomia si interrogano; l’anima è la connessione-sconnessione nei loro rapporti che il regista scolpisce nella successione fenomenologica degli attimi in PPP alternati.
In fondo il vero protagonista -come succede ai registi-autori- è forse Ceylan stesso, è, cioè, il suo stile. Da qui forse l’accusa da parte di alcuna critica di estetismo. Non c’è estetismo. C’è invece estetica e necessità. Ceylan compone una tragedia senza tragedia, perché la prosciuga, la depura da ogni melodramma. Ceylan fa un film realistico ed insieme simbolico, narrativo e insieme filosofico, un film di rapporti psicologici senza psicologismi. Non inventa uno stile, è uno stile.
da La linea dell’occhio n. 60
Le tre scimmie
Regia: Nuri Bilge Ceylan
Sceneggiatura: Ebru Ceylan, Ercan Kesal, Nuri Bilge Ceylan
Attori: Yavuz Bingöl, Hatice Aslan, Ahmet Rifat Sungar, Ercan Kesal
Fotografia: Gökhan Tiryaki
Montaggio: Ayhan Ergürsel, Bora Göksingöl, Nuri Bilge Ceylan
Produzione: Zeynofilm, NBC Film, Pyramide Productions, BIM distribuzione
Distribuzione: BIM distribuzione
Paese: Francia, Italia, Turchia 2008
Durata: 109 Min